A nome di un paio d’orecchie che sono state al Marenco

Certo non potrei farvi davvero capire come ci si sentiva, perché le parole hanno il brutto vizio di saper costruire o rievocare mondi, ma in maniera mutevole per ognuno. Così quella cosa che ci si è affannati tanto a spiegare si trasforma, nella testa della persona che legge, in una completamente diversa, come in un telefono senza fili. 
Beh, quella cosa che provo a descrivervi ora è il concerto di sabato scorso, al Teatro Marenco.
Cerco di farvi calare un po’ nella testa della sottoscritta.
Immaginate di nascere in una città nella cui via principale leggete tutti i giorni, mentre la mamma vi  strattona per la mano, la scritta “Teatro Romualdo Marenco”. A fianco, il “Caffè del Teatro”. Nel caffè ci puoi entrare a magnarti una brioche, ma nel teatro no, ed è una bella fregatura, per una bambina che entra in un bar che si chiama caffè del teatro. Poi immaginate che in quel posto chiuso da anni, e quindi investito da ulteriore fascino, voi abbiate la possibilità di entrare una volta sola, in occasione di una apertura speciale. E che lì dentro, tra la polvere e i fantasmi spuntati dalla fantasia di una cinquenne, riusciate a scorgere nella penombra solo qualche suggerimento della sua struttura e, sul palco, un vestito di scena timidamente indossato dal suo manichino. Qualcosa, là dentro, c’è. Per me assomigliava al relitto di una nave fastosa, di cui potevo immaginare istantaneamente i passati veglioni sul ponte.
Immaginate di crescere. Immaginate di pensare che non potrete tornarvi. E che poi, dopo qualche anno, vengano annunciati i lavori di restauro di quel teatro. Magari nel frattempo iniziate pure un corso di recitazione, e quel mondo che prima sembrava altrui ora vi tira dentro, a scoprire quanto sia perfetta quell’unità di uomini che guardano se stessi, mentre interpretano altri uomini.
Immaginate anche che circa dieci anni dopo i lavori finiscano, e che voi possiate tornarci addirittura in qualità di guide, insieme a decine di altri ragazzi del Fai. E che prima dei giorni di apertura al pubblico siate invitati a una perlustrazione tutta per voi, in cui farvi mostrare dall’architetto quegli infiniti dettagli di accuratezza storica che ha voluto preservare all’interno della sala.
La doratura delle fasce che decorano gli ordini.
La figura della Fama sull’arco di boccascena, senza la doratura, perché l’ha persa in un incendio.
I palchi tappezzati con la stessa stoffa damascata che accarezzava qualche altra ragazza prima di te, mentre aggiustava la gonna ampia per sedersi a vedere la prima di uno spettacolo. 
Abbiamo accompagnato più di mille persone a visitare il teatro.
Io ho scortato una signora molto anziana, appoggiata al suo bastone, che entrata nella sala ha sorriso come una padrona di casa, dicendomi: ”E’ ancora più bello di quando ci ho fatto il mio primo ballo in società. Mio padre era seduto in quel palchetto sulla sinistra, al secondo ordine”
Vorrei raccontarne tante altre di cose successe prima della serata di capodanno, ma poi vi annoiereste a morte leggendo questo articolo, e comunque ormai avete capito il legame che sento di avere con questo posto. Quindi salto al dunque.

Sera del primo gennaio. Platea. L’atmosfera si scalda con le note di Mozart, per poi proseguire con alcuni dei brani più conosciuti dell’opera lirica. Arrivati al duetto dei fiori (fidatevi, lo conoscete anche voi), che mi ha trasportato in dimensioni in cui non vedo l’ora di tornare, ho pensato che il culmine dello spettacolo fosse stato raggiunto, e invece mi sbagliavo. Eccome se mi sbagliavo. Ringrazio di aver avuto l’obbligo di tenere la mascherina addosso, o chiunque mi avrebbe visto con la bocca sgranata per quaranta minuti consecutivi.
Quelle note conosciute, ma normalmente udite dalle casse di un cellulare di otto centimetri per quattro, in un teatro all’italiana escono dalla bocca della cantante arrotondandosi lungo il perimetro della sala, come i profumi di un vino sono trattenuti dai bordi del calice. I suoni avvolgono la platea riverberando da ogni direzione: non c’è scampo dalla musica. Quasi potete vederla scorrere, come un ruscello che parte dal palco e si ramifica verso ogni lato, lasciando trasparire la luce intermittente dell’oro che ricopre le decorazioni. É un quadro surrealista.
Qui i miei tentativi di spiegare questa sensazione, unita ai sentimenti che, da cittadina novese, provo per il Marenco, si fermano. Del resto non c’è bisogno che mi dilunghi oltre: ora il teatro è pronto, e le vostre orecchie non vedono l’ora di andarci, ma non ve l’hanno ancora detto solo perché non sanno parlare.

Ve lo posso garantire. 

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Alice Chirivi

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