La celebrazione del 25 aprile consente ai molti interessati e partecipi la possibilità, lo stacco, il tempo di fermarsi a riflettere sul diverso modo di scorrere del tempo storico,
In alcuni momenti, e questo è un momento che ha tale natura, sembra che il tempo acceleri all’improvviso e noi si è spinti in avanti alla massima velocità, senza freni e vie di fuga. Schemi d’azione, costrutti teorici consolidati, abitudini mentali radicate sono spazzate via in poche settimane. Il nostro bagaglio personale sembra diventare leggero, inadeguato addirittura inutile. La pandemia e la guerra in Ucraina ci hanno scaraventati in un mondo nuovo che si propone senza mediazioni sfidando il passato.
In tale situazione ci siamo accorti subito che la Resistenza, il movimento partigiano e le ragioni dell’antifascismo sono gli unici valori che riescono validamente a sostenere l’urto con il presente.
Non è più consentito rifugiarsi nel “particulare”, nel privato poiché pandemia e guerra ci hanno snidati in modo sistematico da abitudini e certezze. L’ampia zona grigia che era stata idealizzata come giusto mezzo tra antifascismo e fascismo, il moderato “giusto mezzo” si è tragicamente rivelato per quel che semplicemente era, un vuoto che serviva solo al presente politico per sgretolare la Resistenza, trovarle un’alternativa, e che allora nel fuoco della guerra di Liberazione non era una proposta politica e/o esistenziale.
Il coraggio di opporsi all’ingiustizia e all’oppressione se uno non ce l’ha non se lo può dare, diceva il più famoso “prudente” della letteratura italiana; non si può negare la profonda ragione umana di un sentimento del genere, ma è altrettanto vero che tale disposizione non può diventare una proposta politica o una categoria storiografica. È in realtà un tentativo di demolire, corrodere ogni volontà di agire nel mondo, di non essere solo quello che il movimento contro la guerra del Vietnam, definiva i vegetables.
O forse era solo un tentativo storico-politico di oscurare una stagione che ha riaffermato la dignità di un popolo che per primo aveva subito il dominio del fascismo. Il movimento che poi in tutta Europa aveva lottato contro la Peste Bruna, contro il flagello della svastica. Ognuno ha e aveva il diritto di nascondersi e mimetizzarsi, ma da quando i paurosi, i pavidi, i furbi e i nicodemiti possono arrogarsi la definizione delle scelte di campo, delle linee politiche?
All’improvviso ci siamo resi conto tutti che senza i valori dell’antifascismo e della Resistenza saremmo rimasti orfani e non sapremmo come giudicare il presente, come misurare i dissensi e le concordanze. Tali valori sono l’unico perimetro che ci consente di attingere per definire il bene e il male. È evidente in sé che non possediamo altra graduatoria di valori con cui giudicare il mondo nel suo presente.
Ora forse possiamo anche approfittare di questa temperie per provare ad andare oltre alla Liberazione del 1945 e approfondire il significato di tale data lungo la storia, la lunga storia, della “nazione italiana”. È una riflessione che però può portare ad esiti retorici e nocivi: il paragone rituale fra il Risorgimento e la Resistenza spesso non ci ha consentito di approfondire, di penetrare a fondo nelle pieghe più riposte della storia individuale e collettiva degli italiani. Forse dobbiamo andare ancora più lontano e più a fondo fino quasi a sfiorare l’antropologia profonda del passaggio di mentalità, atteggiamenti che la memoria popolare e quella colta ci hanno trasmesso. Dal motto “di Franza e di Spagna purché se magna” al “combatter corto” contro i barbari di Francesco Petrarca.
L’occupazione nazista del 1943 non è stata la prima volta che un invasore ha posto la sua mano pesante su di noi che ci impedisce il respiro finalmente aperto di chi si è finalmente liberato e può vivere senza piombi. E la necessità inderogabile della vita, è il primo passo. come ha detto un grande filosofo che ci ha lasciato da poco tempo.
Nel 1527 una armata di lanzichenecchi, banditi, disertori arrivano a Roma e per settimane devastano, incendiano e uccidono i romani. Il “sacco di Roma “è la conclusione brutale e senz’appello di quel periodo chiamato guerre d’Italia, iniziato nel 1494 con la calata di Carlo VIII, il portatore della “furia franzese”. Inizia la lunga stagione che si concluderà con lo stabilizzarsi dell’equilibrio europeo che ha avuto come pre-condizione e fulcro la scomparsa dell’equilibrio italiano.
Nel 1630 a causa delle controversie dovute alla estinzione dei Gonzaga la città fu assediata ed espugnata dalle truppe imperiali che per settimane depredarono la città, spogliando tra l’altro il Palazzo dalle opere d’arte e di ogni altra cosa di valore. Venne invece distrutta completamente la preziosa ed unica biblioteca dei Gonzaga. Il saccheggio di Mantova è stato un danno incolmabile alla civiltà rinascimentale e all’umanesimo.
Nel 1747 con 350 chili d’oro (100.000 zecchini) Augusto III di Sassonia, detto il “corpulento” comprò dall’esausto Duca di Modena quasi 100 quadri di immenso valore artistico. Provenivano dalle collezioni estense di Ferrara. È considerata la più grande svendita di opere d’arte del commercio europeo.
Sono solo tre esempi, molti altri sarebbero da ricordare, il sacco di Prato e di Brescia, la distruzione di Fivizzano etc.., che in ogni caso rappresentano il retroterra politico culturale dei patrioti del Risorgimento, e solo a partire dal nostro passato di dominazione straniera che si capisce la morte in difesa della Repubblica Romana di Mameli e Manara. Luciano Manara, ex dandy e gran signore a Milano, che va Roma a combattere e scrive “Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto, affinché il nostro esempio sia efficace dobbiamo morire”. Visto da questa prospettiva il Risorgimento assume un’altra dimensione di tono e di valori. I patrioti dovevano uscire ad ogni costo da una condizione di secolare “preponderanza straniera” che risaliva al 1530.
L’analisi della decadenza italiana ha prodotto le opere fondative della storia politica europea, solo per citare Machiavelli, Guicciardini, Vettori etc., ma, purtroppo il merito scientifico non ci ha salvato da secoli di servaggio a cui ci ha relegato la pax hispanica prima e asburgica poi.
Il disastroso esito della decadenza nazionale è conficcato profondamente nella coscienza pubblica ancora oggi; altrimenti non si potrebbe spiegare ad esempio il successo del film di Ermanno Olmi Il mestiere della armi del 2001 sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere o il dibattito suscitato dal libro di Asor Rosa pubblicato nel 2019 su Machiavelli e l’Italia che porta come sottotitolo Resoconto di una disfatta.
La digressione che abbiamo compiuto intorno alla Storia d’Italia, agli storici si deve perdonare questa propensione semiautomatica al campo lungo, ci serve per porre l’attenzione sul terzo elemento che compone l’intreccio storico che noi definiamo Resistenza: la guerra di classe, la guerra civile e la liberazione nazionale. Sono tutte e tre parti costitutive della Resistenza italiana, inscindibili l’una dall’altra se si intende capirne la natura peculiare nel panorama europeo.
Certo è che quando abbiamo festeggiato per la prima volta la Liberazione in Italia è stato bellissimo perché era finita la guerra, il peggiore dei flagelli, ci eravamo liberati dal nazifascismo, il più orrendo e pericoloso dei sistemi politici, ed infine ci siamo di nuovo ripresi l’indipendenza nazionale che avevamo perso, di nuovo. Per la terza volta abbiamo dovuto constatare che durante la guerra avevano rischiato la fine dell’unità nazionale e ci siamo rimessi a discutere delle cause della decadenza. Da Gramsci, a Gobetti, Togliatti, De Gasperi e Croce fino ad ogni abitante dell’Italia si è riflettuto, bene o male, poco o tanto, sul rischio di nuovo della scomparsa dell’identità nazionale. Potevamo ritrovarci a definire la “nazione italiana” ancora una volta come una lingua, una cultura, una memoria gloriosa e una sensibilità artistica e non una nazione.
È stato alto il prezzo che è stato pagato per aver trasformato il giusto amore per l’indipendenza nazionale in imperialismo e con l’alleanza con un regime politico come quello nazista, ma è un prezzo che abbiano pagato fino in fondo cedendo parti del paese, accogliendo i nostri profughi e negoziando faticosamente a partire dalla scomoda posizione e condizione di vincitore “vinto”.
In ogni caso anche tale risultato di respiro secolare l’abbiamo mantenuto fermo e dobbiamo ancora una volta ringraziare i coraggiosi di allora che non si lasciarono atterrire e scoraggiare dalle difficoltà e dal pericolo. Forse, almeno una volta nella vita si può, si deve? provare a entrare nella Grande Storia con una causa giusta.
(testo dell’intervento di Cesare Manganelli in occasione della Festa di Liberazione, Novi Ligure 25 aprile 2022)
Ti è piaciuto questo articolo? Offrici un caffè con Ko-Fi
Segui il moscone su Telegram per ricevere una notifica ogni volta che viene pubblicato un nuovo articolo https://t.me/ilmoscone