Ripartire dopo una sconfitta pesante come questa è difficile. Ma è necessario. Lo dobbiamo soprattutto ai milioni di elettori che ci hanno ancora votato o a quelli che oggi magari si sono astenuti perché non capivano dove stavamo andando. E naturalmente a quelli che ci hanno abbandonato (neanche troppi analizzando i flussi elettorali delle elezioni più recenti) per altri lidi di un centro sinistra eternamente litigioso.
Quello che non si può fare è ripartire senza una riflessione profonda sulla natura e sul ruolo del Pd a quindici anni dalla sua fondazione. Il 14 ottobre del 2007, con una partecipazione popolare mai vista nasceva il Partito Democratico, sulla spinta dell’esperienza dell’Ulivo, con l’ambizione di essere il “partito del nuovo secolo” e di raccogliere dentro di sé le migliori tradizioni ed energie della sinistra riformista italiana e delle forze progressiste cattoliche, laiche e liberali. Ma bisognava lavorare sull’”amalgama”, (come disse qualcuno che adesso non si può nemmeno nominare..) e cioè prima di tutto sulla cultura politica nuova che andava costruita insieme. E non semplicemente rottamare i valori della “ditta” (io preferisco dire “delle” ditte) di provenienza, come disse poi Bersani che oggi è troppo spesso ospite dei talk show. Senza spiegare (neanche lui) perché la nuova ditta l’ha infine abbandonata, anziché continuare da dentro una battaglia che doveva aprirsi alla società e non rimanere chiusa nel fortino delle correnti e dei nuovi partitini dello zero virgola.
Così il partito è diventato di volta in volta la zattera di salvataggio per singole ambizioni personali aggrappate a qualche cordata in quel momento vincente (Calenda è un caso di scuola) oppure un indistinto vascello a vocazione riformista ed europeista, tardivamente associato al PSE (lo ha fatto Renzi, pensate un po’..) e progressivamente balcanizzato da correnti che si formavano e poi non si scioglievano ogni volta che, con le primarie, si chiamavano i nostri elettori a scegliere la nuova leadership dopo le dimissioni della precedente. Così si è potuto credere, dopo le colpevoli (sottolineo colpevoli) dimissioni/abbandono di Veltroni che aveva ottenuto “solo” il 33% dei voti ( 12 milioni!) alle elezioni del 2008, che il PD fosse sostanzialmente una creatura transitoria, dalla natura indistinta e legata alle ambizioni del suo leader del momento. Socialdemocratica quando a guidarla erano Bersani e Zingaretti , macroniana o neoliberista, ai tempi di Renzi, con un sottofondo democristiano ben incarnato dall’immortale Franceschini. Per finire con Letta, che di tutti è stato il più coerente nell’affermare una sua collocazione nella sinistra cattolica e nelle radici uliviste e prodiane, fino a dover riconoscere, alla fine, l’insufficienza della sua leadership. Sicché è motivo di tristezza constatare (a quarantott’ore dal voto e anche meno) che una serie di esponenti che negli ultimi dieci anni hanno condiviso incarichi governativi o di direzione politica ai vari livelli, si candidano affrettatamente a guidare la “necessaria” svolta che , chissà perché, dovrebbe essere affidata a chi ha condiviso, di volta in volta, tutte le “svolte”degli ultimi anni. Con il risultato finale di consegnare il governo del Paese alla destra più destra che abbiamo mai visto (tranne quella di cui quest’anno ricorre il centenario).
Bisogna dunque ripartire dalle fondamenta. Cosa che è necessaria (mi si consenta un piccolo excursus locale su cui ci sarà tempo per tornare) anche a Novi dove la debole destra più destra è stata al potere per tre anni per poi autoconsegnarsi alla resa anticipata. Non si può partire dal tetto insomma neanche qua. Ma dalle idee, dai progetti, dall’insediamento sociale del centro sinistra, dalla verifica della visione di città del passato ma anche da quanto di buono si è costruito: le fondamenta si trovano lí. Ecco perché non mi scaldo per le primarie né intendo preventivamente scegliere candidati senza ascoltarne le idee e senza che questo avvenga con una discussione dal basso. Vale per il PD nazionale, ma vale a maggior ragione per quello locale. A cui sono affezionato per evidenti ragioni.
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