L’opposizione perpetua

“Spinaceto pensavo peggio!” diceva Nanni Moretti riferendosi a un quartiere malfamato di Roma. E devo dire che, Lunedì 26 settembre, mi sono svegliato con un umore decisamente diverso rispetto alla mattina del marzo 2018 successiva al trionfo di Lega e 5 Stelle. Sarà che Di Maio si dovrà trovare un altro lavoro, sarà che durante la passeggiata mattutina una bimba mi ha fermato per dirmi che aveva appena visto uno scoiattolo, insomma, non l’avevo presa così male.

Poi ho guardato i numeri dei vincitori delle elezioni degli ultimi sei anni (Europee comprese) e credo di essere riuscito a darmi una spiegazione che quattro anni fa faticavo a mettere assieme: 11 milioni di voti al PD nel 2014, 10.7 milioni al Movimento 5 Stelle nel 2018, 9 milioni alla Lega un anno più tardi e poi i 7 milioni che hanno premiato Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni a questa tornata. Complice l’astensione (e forse un risultato inatteso per i 5 Stelle), il partito di destra non ha sfondato il 30% come era capitato ai predecessori e come qualcuno (incluso il sottoscritto) aveva pronosticato.

Una costante di questo trend è che, chi ne beneficia, è solitamente qualcuno che si oppone allo status quo. Sicuramente non sono il primo a dirlo, ma Matteo Renzi era quello che voleva rottamare il centrosinistra troppo ancorato alle ideologie, il Movimento 5 Stelle (all’epoca targato Di Maio e Di Battista) si proponeva di riprendere il controllo dell’istituto parlamentare aprendolo “come una scatoletta di tonno”, la Lega e Salvini hanno capitalizzato la percezione di scarsa sicurezza e l’idea, in parte condivisa con i 5 Stelle prima del dietrofront, che l’establishment Europeo non avesse rispetto per la volontà degli Italiani. Fin qui tutti punti di vista fin comprensibili.

Questa volta, però, mi mancava un pezzo: al netto di alcune differenze prettamente ideologiche o programmatiche (centralità vs federalismo / attenzione al welfare vs flat tax), Giorgia Meloni non si è distinta così radicalmente da Matteo Salvini. Entrambi promuovono una politica restrittiva per l’immigrazione, prediligono, almeno nei toni, un approccio repressivo nei confronti della sicurezza, sono entrambi schierati in difesa della famiglia tradizionale e hanno abbastanza in antipatia l’elite di Bruxelles (il fatto che siedano in due eurogruppi diversi, elemento non secondario, credo sia passato per lo più inosservato). Certo, Giorgia Meloni probabilmente ha una comunicazione più efficace, meno ossessiva, almeno personalmente l’ho trovata più gradevole del previsto (pur non condividendo molto di quanto sostiene) e si è esposta in una serie di confronti pubblici con il leader del Pd Enrico Letta (non ricordo che Salvini abbia fatto altrettanto), ma proprio per questo avrebbe dovuto raggiungere un indice di gradimento molto più alto. L’impressione, invece, è che abbia semplicemente sottratto consensi agli alleati di centrodestra, conquistando la maggioranza (solida, ma non enorme, perchè basterà una manciata di senatori per farla cadere) più per le divisioni dell’opposizione che altro.

Ecco qui, la parola magica. Opposizione. Paga? Sì. Poi se andiamo a vedere bene, non erano all’opposizione nè Renzi nel 2014 (anzi, era appena diventato Presidente del Consiglio) nè Salvini nel 2019 (Ministro dell’Interno), ma entrambi avevano lanciato il guanto di sfida a chi non sembrava aver troppa fretta di cambiare le dinamiche del paese (Letta nel 2014 e Conte nel 2019). E la domanda successiva che mi pongo è questa: quando si è rotto il meccanismo per cui stare all’opposizione non era garanzia di successo elettorale?

Dall’inizio della Seconda Repubblica non c’è stata una formazione politica in grado di confermarsi alla tornata successiva: vince il centrodestra nel ’94, il centrosinistra nel ’96, di nuovo il centrodestra nel 2001, poi ancora Prodi nel 2006 (per un pelo!), Berlusconi nel 2008, poi nel 2013 in teoria sarebbe un pareggio, ma di fatto la vittoria viene negata a Bersani più dall’exploit dei 5 Stelle che non da un centrodestra ormai in disarmo. Si finisce comunque per avere un governo di centrosinistra al quale si oppongono con forza Lega e 5 Stelle che, difatti, sono i protagonisti nel 2018. E via così fino ad oggi.

In Europa siamo un po’ un unicum, anche se per un po’ la Francia ha provato ad imitarci: Angela Merkel è stata cancelliera per quasi vent’anni (tra l’altro il suo “battesimo” nel 2005 fu un mezzo disastro), i Conservatori in Inghilterra governano dal 2010 e forse la loro parabola è finita solo ora. Solo in Spagna sono riusciti a fare di peggio con elezioni ripetute del 2016 e nel 2019, ma provateci voi con venti partiti autonomisti e un sistema elettorale con collegi regionali.

Il primo sintomo risale probabilmente al 1992 quando la Lega toglie ai postcomunisti l’esclusiva dell’opposizione. Da quel momento in poi, per trent’anni, ci siamo sentiti dire che ormai gli operai non votano più a sinistra. Ah, ma quindi è tutta colpa di Occhetto e della Bolognina?

No, il Partito Comunista subiva un’emorragia di consensi sin dal periodo del compromesso storico (tamponato solo nel 1984 dal voto solidale seguito alla morte di Berlinguer), la Lega si è solo limitata ad accelerare un processo che si è verificato in misura uguale in tutta Europa. Due settimane prima delle elezioni in Italia, si è votato in Svezia. E’ un paese che conosco bene, ci ho vissuto alcuni anni e la maggioranza degli iscritti alla LO (l’equivalente locale della CGIL) ha votato per gli Sverigedemokraterna, un partito nazional-conservatore alleato di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo. I Socialdemocratici, così come i Verdi, hanno un elettorato prevalentemente urbano, composto da colletti bianchi e dipendenti pubblici, mentre in provincia (specie nel Sud produttivo e più esposto alla presenza di immigrati, come il nostro Nord) gli Sverigedemokraterna sono il primo partito da anni dopo aver scalzato sia la sinistra che i Moderati o i Cristiano Democratici. La differenza fra Socialdemocratici e Verdi è la stessa che passa fra il PD e chi si pone alla sua sinistra: i pensionati votano in maniera più tradizionale (come se esistesse ancora il PCI o fosse vivo Olof Palme), i giovani votano chi parla di cambiamento climatico, lotta al razzismo e tematiche LGBT.

Se mai vi dovesse interessare, a differenza del PD, i Socialdemocratici in Svezia hanno migliorato sia la propria percentuale che gli elettori effettivi rispetto al 2018, ma non governeranno perchè gli alleati (Sinistra e Partito di Centro) sono andati peggio. I Verdi hanno migliorato lo score, ma è probabile che si tratti di un voto “di soccorso” per evitare che finissero sotto lo sbarramento del 4%. La differenza è che l’ultima premier socialdemocratica, l’economista Magdalena Andersson, è stata molto più convincente rispetto al predecessore Lofven. Un po’ come se Irene Tinagli o Elisabetta Gualmini avessero preso il posto di Zingaretti invece di Letta, e la questione di genere conta solo in parte. Conta più il fatto che Magdalena Andersson è stata un competentissimo Ministro per le Finanze e che in campagna elettorale, dopo l’ennesima sparatoria fra gang composte da immigrati, ha detto “Non possiamo permetterci di avere delle somali-town nel paese” affrontando la dura realtà di un’integrazione che non è riuscita. Di Letta ci ricorderemo per l’osceno tweet #vivaledevianze .

Ma quindi? Fino a quanto dobbiamo andare indietro per capire quando si è rotto il meccanismo? La risposta è che non lo so, ma inizio a pensare che gli Italiani abbiano un profondo sospetto nei confronti dello status-quo e siano disposti a qualsiasi cosa pur di scardinarlo. D’altronde, se Fratelli d’Italia guadagna qualcosa come 3 o 4 milioni di voti (e prima la Lega, i 5 Stelle e il PD), significa che qualcuno è partito da Renzi per arrivare a Meloni passando per Di Battista e Salvini. Probabilmente più di qualcuno, potrebbe essere anche un buon milione di elettori. Io ne conosco uno che ha fatto questo percorso, ed è matto come un cavallo.

Forse, ma qui potrebbe venirmi in soccorso qualche lettore più anziano, la simpatia nei confronti di chi sta “contro” non è mai venuta meno. Semplicemente, una volta all’opposizione c’erano solo il Partito Comunista, per un po’ il Partito Socialista e l’MSI. Tolto l’ultimo, perchè all’epoca la maggior parte delle persone adulte aveva vissuto il dramma della dittatura e della guerra, e il secondo che entrava e usciva dalle maggioranze a seconda delle stagioni, rimaneva solo un’alternativa. E quell’alternativa aveva leader carismatici, ampie risorse, appoggi internazionali, un radicamento enorme nel paese e una pletora di validi amministratori locali. E attenzione, quell’alternativa, che si chiamava Partito Comunista Italiano, era una circostanza pressochè unica in Europa, perchè in qualsiasi altro paese i comunisti erano una frangia minoritaria, vista con sospetto e quasi mai coinvolta in dinamiche di governo, neppure in quei paesi con un forte partito di sinistra come potevano essere i Laburisti in Inghilterra o i Socialdemocratici in Germania. La Spagna fino al ’76 era una dittatura, ma dopo di essa si sono imposti i Socialisti, non i comunisti di Carrillo che pure aveva sposato l’Eurocomunismo di Berlinguer.

Davvero in Italia abbiamo avuto 12 milioni di comunisti nel 1976? E per comunisti mi riferisco a persone che credevano che la soluzione alle ineguaglianze prodotte dal libero mercato, fosse l’abbattimento del sistema da parte delle masse operaie, organizzate in maniera armata e detentrici del potere attraverso i Consigli dei Lavoratori. No, probabilmente aveva ragione Giorgio Gaber nella canzone “Qualcuno era comunista”. Ci era già arrivato lui trent’anni fa. Non me ne vogliano i vecchi militanti, ma probabilmente, una buona parte di quei 12 milioni, si sentiva rappresentata nel suo desiderio di rivalsa sociale solo finchè qualcuno si offerto di farlo garantendo il proprio impegno e la propria presenza, senza badare a troppi compromessi. Quando quella narrazione è venuta meno, ne ha preso il posto un’altra, che è stata quella del “Ce lo chiede il paese” e “Non possiamo governare sulle macerie”. Che poi, davvero, non è una brutta idea quella di prendersi una tale reponsabilità per evitare di finire come la Grecia, però le risposte a questo sentimento perpetuo di insoddisfazione non possono essere solo quelle.

Quanto ho ancora da scrivere? Giusto il tempo di dire che Giorgia Meloni adesso deve scegliere se dare quelle risposte, prendendosene tutti i rischi, oppure fare gli stessi compromessi dei suoi predecessori, comprendendo che le promesse fatte non sono realizzabili (per lo meno in tempi brevi e in queste circostanze). Il ciclo perpetuo dell’opposizione che paga potrebbe premiare Calenda, che però in questa campagna elettorale si è completamente Salvinizzato agendo sugli impulsi delle notifiche di Twitter e ha già praticamente litigato con chiunque, oppure potrebbe segnare una clamorosa svolta a sinistra del PD, ma per protestare contro il caro bollette e il riscaldamento globale serve qualcuno con un pizzico di eloquenza e carisma ed è evidente che Bonelli e Fratoianni non sono dei trascinatori di masse. 

Se non altro, fra cinque anni o poco meno, sapremo cosa potrà votare quel mio conoscente matto come un cavallo.

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Enrico Varrecchione

Un commento su “L’opposizione perpetua

  1. Analisi corretta, il vero problema è che a furia di promesse non mantenute, e compromessi a ribasso…
    La disaffezione diventa costante e gli scivoloni diventano del pari una certezza..

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