Oggi 27 maggio 2023 Don Lorenzo Milani avrebbe compiuto cento anni. Ho riflettuto molto sul taglio da dare a questo articolo per non cadere nel commemorativo/retorico, quello noioso, forse anche poco sincero, tutto teso a celebrare l’anniversario in un modo che finisce per sfociare nel pomposo, nell’esaltazione di un santino.
Niente sarebbe piaciuto meno a Don Milani, un uomo asciutto e fattivo, poco incline a mettersi al centro e anche molto critico sul concetto di santità a proposito della quale diceva: Eppure io non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Anche nel fare scuola sono pignolo, intollerante, spietato.
Ecco perché cercavo una chiave per parlarne senza cadere in un’oratoria vuota di significato nei confronti della quale Lui avrebbe arricciato il naso, non gli andava, infatti, molto a genio chi tendeva a sdottorare.
La figura di Don Lorenzo Milani è una delle più citate e, talora abusate, nel linguaggio educativo e politico. Lo infilano nei discorsi come un passe partout, un riferimento ci sta sempre, anche se spesso en passant, così tanto per far vedere che si è letto il celeberrimo Lettera ad una professoressa.
Ripeto a Lui non sarebbe piaciuto, Lui anelava ai fatti e non a essere al centro dell’attenzione.
Avete, quindi, capito che non c’è l’intenzione di fare un panegirico e tanto meno un riassuntino biografico, tanto chi non ha mai sentito parlare di Don Milani difficilmente leggerà questo articolo.
Detto questo, l’opera e il pensiero del priore di Barbiana, la sua parrocchia nel cuore del Mugello, dove oltre ad esercitare il suo ruolo sacerdotale diede vita a un modello di scuola rivoluzionario, sono una parte importantissima del riscatto culturale delle classi povere del dopoguerra.
La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale.
Preparatevi, entrando nel vivo del discorso che intendo fare, sentirete parlare di poveri, una parola scandalosa, da non evocare, quasi fosse uno sfregio alla modernità e al benessere.
A parte il riferimento del Movimento Cinque Stelle al momento dell’istituzione del reddito di cittadinanza (ricordate Di Maio al balcone: Abbiamo abolito la povertà), un riferimento forse discutibile perché, purtroppo, il provvedimento non era sufficiente a risolvere un problema così radicato, di poveri si parla poco, se non in termini di falso assistenzialismo.
Negli anni del dopoguerra orientati verso il boom economico, gli anni di Don Lorenzo, la povertà era tangibile, economica, ma soprattutto culturale.
I poveri non studiavano e non avevano accesso a un bagaglio culturale in grado di garantire loro la comprensione di ciò che li circondava.
Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone.
Capiamo che la povertà evocata da Don Milani non era solo quella dei ragazzi delle campagne malvestiti, con le unghie nere e i pidocchi nei capelli, ma la povertà culturale, quella che non permetteva loro di emanciparsi.
Eppure le generazioni di padri e figli, che si sono succedute in quegli anni, avevano ben capito che la strada era quella, una strada di sacrifici, economici e di studio, e riuscirono, con le loro lotte, a cambiare una situazione per cui il dottore lo faceva il figlio del dottore, l’avvocato il figlio dell’avvocato e l’operaio poteva solo sperare che suo figlio fosse a sua volta un operaio, forse meglio retribuito e tutelato.
Battaglie come quelle di Don Milani hanno prodotto facilitazioni allo studio per chi apparteneva alle classi contadina e operaia.
La mia generazione ha potuto studiare, chi grazie al presalario (su cui ci sarebbero pesanti critiche da fare, ma non è l’occasione), chi, come me, godendo della completa esenzione delle tasse universitarie uscendo dal liceo con una votazione superiore al 48 e mantenendo nel corso degli studi una media superiore al 27.
Si viaggiava, certo, chi proprio non poteva, trovava case in affitto a canoni convenienti, c’erano l’abbonamento ridotto per studenti e le mense a prezzi bassissimi, pure i bar universitari avevano tariffe quasi da prezzo politico.
Compravamo i libri in un gruppetto e dividevamo le spese, le copisterie universitarie duplicavano le dispense quasi per niente.
Così io, figlia di operai, e con due fratelli minori che studiavano pure loro, ho potuto laurearmi e, con responsabilità, lo feci in fretta, nei quattro anni previsti, per non gravare ulteriormente sul bilancio familiare.
Anche senza aver letto Don Milani lo sapevamo da soli: Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel culo domani.
Con il passare del tempo le cose sono profondamente cambiate. La scuola è l’ultima ruota del carro da molti, troppi anni. Si sono succeduti governi di diverso orientamento politico, ma quando c’era da tagliare, sempre lì si finiva. E una scuola senza mezzi è una scuola destinata a non funzionare a pieno regime, è una scuola che non riesce ad assolvere a quelle finalità generali che ne orientano l’azione.
Se si perde loro (i ragazzi più difficili) la scuola non è più scuola. É un ospedale che cura i sani e respinge i malati.
Sono stata una di quegli insegnanti che ha cercato di far star bene i sani e di curare i malati, l’ho fatto con uno slancio naturale.
Non ci sono sempre riuscita proprio perché, come dicevo sopra, la scuola ha navigato in acque burrascose e, come ci narra la cronaca contemporanea, se navighi in acque burrascose, non hai strumenti validi e non ricevi un aiuto esterno, qualcuno lo perdi per strada, è inutile voler far credere il contrario.
E se l’accesso alla lettura e alla scrittura non sono negati perché le scuole inferiori con tanta dedizione e tanto volontariato (e come chiamare le ore mai retribuite di chi si è speso per i propri studenti per amore del proprio lavoro?) accolgono nel loro grembo tutti, piano piano il diritto allo studio superiore e alla formazione universitaria stanno diventando via via più difficili per chi economicamente non ce la fa.
Stiamo tornando indietro, in tutti i sensi. Quel bagaglio di mille parole si è via via impoverito e spesso il lessico degli studenti che escono dalla scuola dell’obbligo è tornato ad essere minimale, con quella difficoltà di decifrare il mondo che lamentava Don Milani. In più ci è messo il web, grande opportunità se lo sai usare, ma fonte di semplificazione e mistificazione per la presenza delle fake news.
I nostri ragazzi, tra una conoscenza lessicale povera e una realtà presentata con una visione distorta, rischiano di avere più difficoltà di quelli dell’epoca della scuola di Barbiana nel comprendere il mondo che li circonda .
Un altro argomento interessante è anche quello della motivazione.
Un ragazzo intelligente degli anni cinquanta e sessanta dava grande importanza alla cultura, sapeva che il suo futuro, magari frutto di sacrifici, avrebbe portato a un miglioramento delle sue condizioni di vita in riferimento alle generazioni che l’avevano preceduto.
Oggi, al contrario, la mancanza di una realizzazione nel mondo del lavoro, induce demotivazione, cioè mancanza di grinta, quelli che la conservano espatriano, cercando realtà dove poter realizzare la propria vita con un mestiere che sia vicino ai propri studi e ai propri interessi.
Naturalmente parliamo di chi ce l’ha fatta, di chi possiede un titolo di studio e non trova occasioni di lavoro, ma ci sono anche quelli per strada, letteralmente, sotto una tenda, per protesta.
Parlo del caro affitti per gli universitari che devono, per motivi legati alla facoltà scelta, risiedere dove studiano.
Una famiglia media, con entrambi i genitori che lavorano, dovendo far studiare un paio di figli all’università si trova a dover far bene i propri conti. Le tasse universitarie sono alte, anche negli atenei statali, e gli affitti sono proibitivi. Se ci si aggiunge il costo dei testi, del mantenimento, della decenza dell’abbigliamento, per un figlio all’università parte completamente uno degli stipendi dei due genitori.
Quando sarà l’ora del secondo figlio, la famiglia ce la farà, o dovrà, come in passato, scegliere chi far studiare?
E abbiamo fatto un esempio di famiglia media, è chiaro che una famiglia monoreddito, prossimamente potrà non essere in grado di far laureare un figlio.
Ve lo dico subito Don Lorenzo si sarebbe arrabbiato un sacco, ma proprio da tuoni e fulmini, perché lui le disuguaglianze proprio non le poteva tollerare.
Dovevo insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.
Questa idea che se sei povero non puoi far studiare tuo figlio gli avrebbe procurato come minimo l’orticaria.
Nulla è più ingiusto che far parti uguali fra disuguali. (Forse a Don Lorenzo non sarebbe piaciuta un granché la flat tax).
Così mi sono chiesta dove sarebbe oggi Don Milani.
La prima risposta che mi sono data è che sarebbe in Africa o in qualche centro di accoglienza per minori sbarcati sulle nostre coste.
Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
Ve l’avevo anticipato che l’uomo non andava tanto per il sottile e che i suoi pensieri erano chiari, definiti, lungimiranti, ma anche lievemente rabbiosi perché quanno ce vo’ ce vo’.
La seconda risposta alla domanda dove sarebbe oggi Don Milani l’ho messa nel titolo: sarebbe sotto una tenda. Sarebbe cioè al fianco di quei ragazzi che in questi giorni protestano con le loro canadesi davanti alle università.
Per vederla in un’ottica complessiva, un po’ come Don Ciotti, di cui mai smetterò di tessere le lodi, il priore di Barbiana si spenderebbe in più campi, sia seguendo gli ultimi di oggi, sia dando la sua vicinanza a chi protesta chiedendo solo un po’ di giustizia, cioè di non pagare centinaia di euro per una brandina in una stanza in comune.
Non si esercita la virtù civile solo con lo slancio del cuore. Si esercita, ad esempio, nel «violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede». I giovani che accettano la prigione conoscono quanto Socrate il valore della legalità.
Questo invito alla disobbedienza civile condensa tutta la speranza, tutta la fiducia che Don Milani aveva nei giovani, è lo slancio giovanile quello che produce il cambiamento, sono gli entusiasmi, gli ideali dei ragazzi a costituire la molla per il progresso.
… Il maestro deve essere per quanto può, profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.
(Lettera ai giudici )
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