Baudelaire, il più diretto capostipite dei poeti maledetti, invitava alla perenne ebbrezza, non tanto del corpo ma dello spirito: “Il faut être toujours ivre. Pour ne pas sentir l’horrible fardeau du temps qui brise vos épaules, il faut s’enivrer sans trêve. De vin, de poésie ou de vertu, à votre guise. Mais enivrez-vous!” Vino, poesia, virtù e non solo vengono bevuti in gran quantità nei calici del maledettismo, che sobbolle fin da Edgar Allan Poe per risuonare fino al ventesimo secolo e oltre.
Il regno splendido e oscuro di tutti i ricercatori di sensi e ideali è antro di immaginazione in cui l’artista bohémien dà forma alle sue visioni, alle sue creature, ai suoi deliri, prima di trasformarli in poesia, letteratura, pittura. Forse frutto dell’assenzio, forse degli oppiacei, forse, semplicemente, di quel feticismo per il Bello, gli artisti maledetti danno vita a un invisibile giardino che prolifera di ninfe, grazie, pensatori e penne inarrestabili. E l’artista lo alimenta e lo decora, lo popola di anime sante e dannate, nel suo slancio armonico e floreale, mentre si perde nell’ennesimo distillato in quel bistrot parigino, in un bar di Praga, o in un caffè di Vienna, o di Berlino… ormai non sa più dove si trova, per lui non esiste altro al di fuori di quel bianco di pagina o tela cui dar vita. Scivolano leggere sull’erba le ombre e i veli, cadono in terra i petali freschi, frusciano nella brezza chiome mitologiche e vesti come grano e stelle. E’ la fine dell’estate, la morte delle illusioni, il germogliare delle inquietudini e l’inizio di un nuovo secolo: soprattutto è un lascito culturale e di personalità ancora vivo e dialogante.
Anime di fine ‘800 e inizio ‘900, muse liberty e artisti di secessione, spiriti di grazia riuniti in un giardino di bellezza e ornamento, oppure antro annichilente di perdita e disperazione in cui degrado e vizio si mutano in stile, e lo stordimento si chiama fata verde? Non esiste, probabilmente, risposta univoca, solo fascino che perdura e ciclicamente riemerge.
La definizione ‘poeti maledetti’ in senso stretto proviene, infatti, dall’omonima opera (“Poètes maudits”) scritta nel 1883 da Verlaine, dedicata ai suoi amici letterati Tristan Corbière, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud, Auguste Villiers de L’Isle-Adam, Marceline Desbordes-Valmore. Un capitolo parla di lui stesso, camuffato dallo pseudonimo Pauvre Lelian.
Per molto tempo l’assenzio fu parte a sé stante dell’identità di Verlaine, oltre che simbolo di costume peccaminoso e artistico in generale. Un giorno nella stazione belga di Gent il commediografo Maurice Maeterlinck vide passare un treno con un folle a bordo, e lo descrisse. Il treno da Bruxelles si fermò nella stazione quasi deserta. Con gran clamore si aprì un finestrino in uno scompartimento di terza classe e apparve la faccia faunesca del vecchio poeta. “Ci voglio lo zucchero!”, gridava. A quanto pare era il suo saluto abituale quando era in viaggio: una sorta di grido di battaglia o parola d’ordine che significava che voleva lo zucchero nell’assenzio.
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