La torre seduta – 4° puntata

Bentrovato Dottore, lo so che lo scorso mese non mi sono presentata all’appuntamento… In effetti non ho dato nemmeno un colpo di telefono per avvertire. Potrei infarcirla con molte storie pittoresche ma non sono brava a mentire, quindi tanto vale che le dica la verità: non volevo correre il rischio di sentirmi giudicata da lei.

Non mi guardi con quello sguardo corrucciato! Parlo del “bilancio delle 4 sedute”, che so essere per molti terapeuti una prassi. Poi ormai, mi corregga se sbaglio, ma nella sua professione si vedono cose alquanto discutibili… tipo psicologi che vivono di online o che sparano sentenze a distanza senza aver mai davvero vissuto il contatto con la persona in carne ed ossa.
Anche se al primo colloquio mi sono presentata, un po’ come fanno tutti, con delle buone premesse, avrà intuito che alla mia veneranda età non sono così disposta a mettermi in discussione più di tanto. Forse sono uno di quei pazienti che non ha rispetto per il suo lavoro e che si dimentica del danno economico che si crea agli altri, però cerchi di capire… Anche io sono schiava di questi tempi moderni in cui le genti fanno di necessità virtù trasformando la precarietà in un valore e in alcuni casi addirittura uno stile di vita. Comunque se mi sforzo di recuperare un po’ di onestà intellettuale devo ammettere che parlare con lei negli scorsi incontri mi è servito a mettere a fuoco meglio alcune mie fragilità personali che non sono così semplici da digerire: sono una depressa tendente al cronico che, nonostante alcuni rigurgiti di narcisismo di varia natura, tende a cader vittima di disturbi post traumatici da stress al primo fatto di cronaca locale. Dice che è grave?

Sull’ultimo punto vorrei tuttavia sottolineare che mi sto ripromettendo di darmi una calmata imponendomi di sopprimere il naturale istinto novese alla polemica. Le faccio un esempio se vuole. Di recente ho incrociato lo sguardo con un altro edificio locale che ormai potremmo definire storico: “il palazzo di vetro”. Visto che vedevo sulle sue finestre un riflesso più cupo del solito mi è venuta voglia di chiedergli come se la passava. Ciò che mi ha detto mi ha lasciata molto perplessa; diceva infatti di non aver più la forza di lamentarsi per l’incuria che lo circonda. Gli ho chiesto di raccontarmi di più, così con pazienza mi ha spiegato che è dal post alluvione del 2019 che in pratica nello stabile non esiste più rispetto della proprietà privata. Incuriosita da quelle parole criptiche gli ho chiesto di dirmi di più. È stato così che mi ha invitato a non fermarmi ad osservare ciò che si vede in superficie per cercare di intravedere ciò che si muove al di sotto del piano stradale; mentre lo diceva, le screpolature delle sue vetrate consumate sembravano rigoli di lacrime di delusione.
Dall’alto della mia collina non mi è stato troppo difficile vedere qualcosa di realmente inaspettato. I garage del palazzo erano costellati da piccoli accampamenti di spazzatura che avevano tutta l’aria di essere abitualmente vissuti: ho intuito che non si trattasse di agglomerati creati dagli inquilini della struttura, però in prima battuta ho avuto difficoltà a capire. Presa da un moto di pietà ho chiesto al palazzo se in questi anni quel luogo fosse diventato una base per i senza tetto locali, ma lui mi ha subito interrotta affermando che la realtà era ben diversa. Mi ha raccontato infatti che quei garage sono diventati negli anni luogo di ritrovo abituale di ragazzini novesi (quasi tutti minorenni probabilmente) che cercano per così dire un po’ di privacy. Ho fatto un po’ la figura dell’ingenua quando gli ho chiesto spiegazioni su quella necessità; sono stata liquidata con la frase: «Vengono quasi tutti i giorni a farsi le canne e lasciano chiaro segno del loro passaggio abbandonando resti di cibi e bevande così come grandi quantità di sigarette svuotate del tabacco».

Ammetto che l’istinto sarebbe stato quello di stracciarmi le vesti, o meglio i mattoni, iniziando a inveire sulla deriva problematica delle nuove generazioni. Tuttavia ho preso un bel respiro e mi sono concentrata su un particolare del racconto del mio amico: “lasciano chiaro segno del loro passaggio”. È stato a quel punto che l’indignazione gratuita ha iniziato a lasciare spazio alla consapevolezza. Mi sono tornate in mente le parole dell’eminente filosofo Feurbach, che a cavallo dell’800’ coniò l’espressione entrata nel gergo comune “l’uomo è ciò che mangia”. Quella frase è stata un invito irresistibile a non nascondere la testa sotto la sabbia di fronte alla realtà occidentale (ma non solo) dove “l’identità dell’essere umano dipende quasi del tutto da ciò che consuma”. Dottore le giuro che non mi stavo fumando uno spinello anche io durante questo trip! Vengo al punto: questa esperienza mi porta a immaginare che quanto sta accadendo sia un segnale da cogliere, perché questi ragazzi non stanno facendo altro che lanciare un messaggio di aiuto. Un messaggio da registrare e in seguito da tradurre in azioni costruttive. Questi giovani, con la proverbiale teatralità degli adolescenti, si fanno riprendere dalle telecamere a circuito chiuso del palazzo di vetro per reclamare il proprio bisogno di essere educati sui valori della società civile. Il mondo moderno è fatto di crescente complessità, alimentata da un rumore di fondo che crea pesanti interferenze sui circuiti neurali; parlandone davanti a lei ammetto che mi viene più facile avere un atteggiamento riflessivo e oggi vorrei concludere il nostro incontro dicendole che mi auguro che la nostra comunità locale trovi sia la strategia per insegnare alle nuove generazioni che alcuni cibi sono molto più nutrienti di altri sul piano esistenziale e sia per coinvolgere le categorie più fragili all’interno di progetti educativi dotati di autentica solidità e concretezza. Iniziative che per una volta riescano a lasciare fuori dalla porta l’onnipresente tentazione a trasformare ogni nostra mossa in un tentativo di costruire profitto economico personale.

Terapeuta: «Per oggi il nostro tempo è terminato; vedo che sta facendo progressi… A questo punto, visto che alle porte dell’estate l’Italia inizia in blocco a fermarsi, posso chiederle quando ci rivedremo?»

Torre: «Nel constatare con sorpresa e sollievo che anche lei ogni tanto ritrova il dono della parola, le ricordo che per me non esistono ferie. La stazza e l’età non mi consentono margine di movimento: per la fortuna del suo portafoglio l’estate la passo qui, come sempre a vegliare sulla mia città».

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Alessandro Zaccheo

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