Non ho firmato i quattro referendum promossi dalla CGIL. Molti anni fa, quando ero un giovane dirigente del PCI, ricevetti una salutare (per me) lezione da Gerardo Chiaromonte. Avendo io affermato che si poteva prendere in considerazione l’idea di sostenere un referendum (credo fosse promosso da Democrazia Proletaria, ma non ricordo neppure quale fosse, con precisione, il quesito), lui mi chiese se avessi studiato bene il quesito e se ritenessi che l’eventuale vittoria del Sì migliorasse significativamente la legislazione in vigore (ovviamente, dal punto di vista dei “nostri“ valori e interessi sociali di riferimento).
Per rispondergli, blaterai qualcosa sul fatto che comunque quel referendum era in grado di comunicare ai lavoratori e ai cittadini il nostro impegno a loro favore, Gerardo mi gelò: “I referendum in Italia sono abrogativi, e si promuovono per vincerli, cioè quando si pensa di fare il quorum e di ottenere una legge migliore di quella in vigore. Per lanciare messaggi o testimoniare del nostro impegno si usano altri strumenti“.
È una lezione che non ho mai dimenticato : si promuovono referendum quando si ha una ragionevole probabilità di raggiungere il quorum e quando si è certi di migliorare la legge in vigore.
Secondo me, il quesito referendario sul Jobs Act non risponde a questi criteri. Quindi, è un errore politico serio la decisione della Segretaria del PD di promuoverli (tra l’altro, non lo ha fatto neppure per prima, ma dopo che l’avevano sottoscritto altri leader dell’opposizione).
Vengo ora rapidamente al merito dei quattro referendum sul lavoro. Per farlo, faccio tesoro degli scritti di Pietro Ichino e di Tommaso Nannicini.
- Quello sulla responsabilità del committente in materia di sicurezza sul lavoro è condivisibile.
- Quello sul reinserimento delle causali nel tempo determinato non fornisce alcun contributo al contrasto della precarietà. Di sicuro, è in grado di alimentare il contenzioso.
- Il terzo, mira a uniformare la disciplina dei licenziamenti tra le imprese sopra e quelle sotto i 15 dipendenti. Ripropone, in sostanza, il referendum tentato da Rifondazione Comunista nel 2003 (allora, la Cgil di Sergio Cofferati si oppose). Va rilevato che il contesto, rispetto ad allora, è del tutto cambiato: allora, la differenza tra le tutele per gli uni e per gli altri era molto grande. Ora, la disciplina è cambiata.
- Il quarto, è quello sul Jobs Act: intende abolire il contratto a tutele crescenti. Cioè, il contratto che è stato introdotto da uno degli otto decreti legislativi attuativi della legge che va sotto il nome di Jobs Act.
Sul contratto a tutele crescenti sono stati operati due interventi che lo hanno modificato radicalmente rispetto al momento della sua approvazione. Prima, il Governo Lega-M5S ha aumentato l’indennizzo massimo da 24 a 36 mesi di retribuzione. Poi, una sentenza della Corte Costituzionale ha tolto la formula per cui l’indennizzo cresceva con l’anzianità e ha lasciato al giudice discrezionalità sull’ammontare dell’indennizzo stesso, fino al limite massimo.
Non c’è bisogno di essere giuslavoristi per capire che, dopo questi due interventi, il “contratto a tutele crescenti“ non esiste più. Per la banale ragione che l’indennizzo per l’ingiustificato licenziamento per ragioni economiche non cresce più in automatico in rapporto all’anzianità di contribuzione nell’azienda di cui si è dipendenti. Tanto che abolirlo non vorrebbe dire tornare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori -come si dice e si lascia pensare-, ma alla riforma Monti-Fornero. Con un effetto paradossale (e certamente non voluto dai promotori): l’indennizzo massimo, in caso di vittoria del Sì e di presenza del quorum, tornerebbe a 24 mensilità.
Secondo e più importante problema: in termini di comunicazione, la campagna per “abolire il Jobs Act“ rischia di fare di tutte le erbe (otto decreti legislativi attuativi), un unico fascio. So bene che i promotori non vogliono far fuori le norme che hanno aiutato i Ryder di Torino ad ottenere le tutele del lavoro subordinato.O quelle che estendono la cassa integrazione guadagni alle piccole imprese. O reintrodurre i Co-co-pro… Ma dubito che saranno in molti quelli che ci seguiranno in questi sofisticati distinguo.
La verità è che il Jobs Act avrebbe bisogno di una più puntuale e coraggiosa attuazione, soprattutto sul versante delle politiche attive per il lavoro. E di modifiche sostanziali per altri versi, poiché la realtà su cui agisce sta cambiando radicalmente. Anche qui, dunque, servono riforme, non referendum abrogativi.
Ma, si dice: il Jobs Act ha aggravato la precarietà. I dati sull’occupazione non dicono questo. L’andamento generale dell’occupazione è buono: il numero degli occupati, alla fine del 2023, secondo l’Istat, è aumentato di 520.000 rispetto all’anno precedente. Tutti rapporti di lavoro precario? Nossignori.L’83% è a tempo indeterminato e il 70% sono donne. C’è un dato estremamente preoccupante e riguarda i giovani: è vero che scende la disoccupazione giovanile, ma si tratta di un’illusione statistica, perché questo risultato si determina soltanto perché crescono gli inattivi. E proprio gli inattivi sono il problema. Coloro che non studiano e non lavorano sono 517.000, il 12,7% della popolazione giovane.
In effetti, c’è stata una fase nella quale le leggi del centro-sinistra e del centro-destra hanno finito per scaricare sui contratti “precari“ le esigenze di flessibilità.Il Jobs Act ha fatto esattamente il contrario: abolizione dei co.co.pro., contrasto delle dimissioni in bianco; stretta sulle false partite IVA. Si poteva fare di più? Certo, ma dire che si è sbagliato tutto non aiuta di sicuro a fare meglio.
E ancora: il Jobs Act ha tagliato il Wellfare. È vero il contrario: la legislazione precedente proteggeva più le grandi aziende che la generalità dei lavoratori. Basta guardare a cosa era diventata la cassa integrazione guadagni. Il Jobs Act ha creato la NASPI, con l’investimento di 2,5 miliardi e raggiungendo il 97% dei lavoratori dipendenti. Rispetto a prima, il sussidio dura un anno in più e non penalizza i giovani.Inoltre, gli apprendisti possono ottenere la cassa integrazione e 1,5 milioni di lavoratori delle piccole imprese -prima esclusi- hanno integrazioni salariali con i fondi di solidarietà.
Non sono stati dunque commessi, in fase di approvazione e attuazione del Jobs Act, errori politici seri? Al contrario: abbiamo di fatto acconsentito ad enfatizzare l’intervento sull’articolo 18, già cambiato -in realtà- dal Governo Monti. Non c’era nessuna esigenza di farne un simbolo. E, soprattutto, non abbiamo reagito duramente quando non si sono attuate le politiche attive sul lavoro, il vero nerbo del Jobs Act.
Di fronte a questi argomenti, i sostenitori del referendum virano verso la politica generale: “è il messaggio quello che conta, perché attraverso questa iniziativa si dà conto di una svolta politica a sinistra…“. Su questo, rinvio a Chiaromonte.
Questo articolo raccoglie una parte degli appunti preparati da Enrico Morando per la riunione tenuta lunedì 8 luglio presso la sede del Circolo PD di Novi Ligure
2 risposte a “Enrico Morando: ecco perché i referendum saranno peggiorativi”
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Ogni scarrafone è bello a babbo sojo.
Ma raccontare ai lettori che i disastri ultraliberisti non hanno favorito l’arricchimento di pochi a danno di molti, ma anzi hanno portato benessere e giustizia sociale agli italiani, o segnala totale malafede oppure è davvero sintomo di completo distacco dalla realtà e dalle miserie e tragedie reiterate che colpiscono da anni chiunque non viva su quella bella torre. Una torre fatta di privilegi e prebende lucrati a spese dei tartassati. Un popolo talmente sciocco e miserabile che gli si nega perfino l’intelligenza di capire che la “riforma monti-fornero” porta la firma occulta dello stesso autore, il responsabile economico del maggior partito che sosteneva e guidava quel governo spacciato per “tecnico”.
Indovina chi era, tu che sei considerato, più che “popolo bue”, “vacca da mungere”. -
Qualche anno fa comparve un articolo su “Il Novese” con il quale lo stesso autore difese la scelta di prolungare il periodo lavorativo, con buona pace di coloro che avevano fatto progetti di pensionamento dopo una vita di lavoro duro e di sacrifici.
Ora scomodiamo Chiaromonte pur sapendo che il contesto è cambiato e che occorrerebbe dare segnali che il mondo del lavoro, o quello che ne resta, è ancora vivo. È il male di questa sinistra, che tenta di scoraggiare ogni iniziativa che dia il senso di unità.
Ed è anche ciò che allontana molti dal voto, alimentando un astensionismo che avvantaggia la destra italiana, forse la peggiore d’Europa, ma, anche demagogicamente sa parlare meglio ai propri elettori, alimentandone le speranze.
Proviamo, una volta tanto io a cercare trame che uniscano, tentando di diminuire la distanza dagli elettori. In fondo il detto ‘se ci sei batti un colpo’ è sempre valido. Con buona pace di Chiaromonte.
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2 commenti su “Enrico Morando: ecco perché i referendum saranno peggiorativi”
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Ogni scarrafone è bello a babbo sojo.
Ma raccontare ai lettori che i disastri ultraliberisti non hanno favorito l’arricchimento di pochi a danno di molti, ma anzi hanno portato benessere e giustizia sociale agli italiani, o segnala totale malafede oppure è davvero sintomo di completo distacco dalla realtà e dalle miserie e tragedie reiterate che colpiscono da anni chiunque non viva su quella bella torre. Una torre fatta di privilegi e prebende lucrati a spese dei tartassati. Un popolo talmente sciocco e miserabile che gli si nega perfino l’intelligenza di capire che la “riforma monti-fornero” porta la firma occulta dello stesso autore, il responsabile economico del maggior partito che sosteneva e guidava quel governo spacciato per “tecnico”.
Indovina chi era, tu che sei considerato, più che “popolo bue”, “vacca da mungere”.
Qualche anno fa comparve un articolo su “Il Novese” con il quale lo stesso autore difese la scelta di prolungare il periodo lavorativo, con buona pace di coloro che avevano fatto progetti di pensionamento dopo una vita di lavoro duro e di sacrifici.
Ora scomodiamo Chiaromonte pur sapendo che il contesto è cambiato e che occorrerebbe dare segnali che il mondo del lavoro, o quello che ne resta, è ancora vivo. È il male di questa sinistra, che tenta di scoraggiare ogni iniziativa che dia il senso di unità.
Ed è anche ciò che allontana molti dal voto, alimentando un astensionismo che avvantaggia la destra italiana, forse la peggiore d’Europa, ma, anche demagogicamente sa parlare meglio ai propri elettori, alimentandone le speranze.
Proviamo, una volta tanto io a cercare trame che uniscano, tentando di diminuire la distanza dagli elettori. In fondo il detto ‘se ci sei batti un colpo’ è sempre valido. Con buona pace di Chiaromonte.