Il fatto che io ogni mattina mi ostini a bere il latte bollente anche se fuori ci sono già 29 gradi, ha qualcosa di masochistico, ma ormai è un rituale: la lingua scottata che mi punge per tutta la mattina mi dà quel leggero senso di malessere che mi permette di non rilassarmi troppo, del resto, come ricorda Francis Scott Fitzgerald, a volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere e quel lieve dolore è una certezza (e un monito) al quale non riesco a rinunciare.
Questa mattina, ben appunto, ero con la mia tazza bollente in mano e non so esattamente quale vortice di pensieri mi abbia condotto a concentrarmi sui quattro quadri appesi alla parete della cucina: sono quattro litografie numerate con firma originale di Luzzati rappresentanti “Le quattro stagioni”. Le avevo acquistate al secondo anno di università, in Via San Lorenzo, in un negozio di arte moderna molto pop, attualmente ancora esistente, negozietto che ora spaccia a buon prezzo quadretti riproducenti le opere di Bansky. Le avevo scelte, con un certo orgoglio, per il mio primo appartamentino dei vicoli dove ero andata a vivere con una mia amica e il cui canone pagavo (ahimè con estrema fatica) facendo la cameriera alla sera e nei fine settimana.
Ora io non ho conosciuto personalmente il maestro Luzzati, né mi sono mai rivolta a lui con un amichevole “Lele”, come amano fare i galleristi genovesi, ma ho assaporato per un periodo la stessa Genova che lo ha consacrato come scenografo e illustratore; quella Genova del post Colombiadi, dove si percepiva nettamente la trasformazione culturale che di lì a poco avrebbe rivoluzionato questa città austera e con pochi fronzoli, proiettandola verso un’emancipazione: da città del mugugno, dei camalli, inospitale e multietnica suo malgrado, a città del design, del teatro sperimentale, della stand up comedy (prima che sapessimo cosa fosse), della musica di propaganda, dei caruggi rinnovati, dei rolli riscoperti, finalmente volutamente e orgogliosamente multietnica. Ora in questa Genova di fine anni ’90 – inizio 2000, una litografia di Luzzati non si negava a nessuno: era il regalo perfetto per la laurea della tua amica, per il battesimo del figlio dei vicini di casa, per la casa delle coppie giovani avanguardiste e un po’ snob, era il modo (economico) per far capire ai tuoi ospiti che tu non eri da arredamento arte povera del Mercatone Uno, ma da poltrona Frau e lampada Tolomeo: insomma era un segno distintivo nel quale il genovese medio neo borghese investiva volentieri perché facilmente riconoscibile.
Chiaro che questa trasformazione aveva invece appena sfiorato i genovesi delle periferie, detti “delle delegazioni”, come mia madre, per i quali la ricchezza era una colpa da espiare e non andava mai ostentata, quei zeneizi riso ræo che guardavano con diffidenza le spese per oggetti inutili, costosi e poco pratici, i genovesi sarvægi dell’entroterra per i quali le litografie erano solo quelle delle scene di caccia o della Vegia Zena, che concepivano appeso sopra il divano solo un arazzo con ambientazione rupestre e la benedizione papale per le nozze.
Nella casa di Prà dei miei genitori, oltre all’arazzo e la benedizione papale, pullulavano quadretti di dubbia provenienza, un pout pourri di stili probabilmente scovati nei mercatini del “basso piemonte” con un unico tratto distintivo: l’avere tutti soggetti codificati, della tradizione, popolari. Del resto nella casa dei miei non c’era spazio per l’avanguardia, l’astrattismo, i miei non ci provavano neanche a sembrare moderni, erano fieramente un quadretto antico, possibilmente di seconda mano, economico e rassicurante. Coerentemente in cucina avevano appesi quattro piatti con pittura color sepia raffiguranti (guarda un po’) “Le quattro stagioni”.
Ora, questa mattina, con il mio latte bollente in mano, l’aver realizzato l’evidenza di questa cosa è stata un’epifania, un ragionamento che mi ha portato un grappolo di pensieri corollario: nel momento in cui mi stavo apprestando ventenne ad emanciparmi dalla vita ovattata del nido famigliare, accollandomi la responsabilità di un lavoro, di un affitto, delle bollette, allontanandomi dal mio quartiere e avvicinandomi al cuore pulsante della città, avevo creduto di ben rappresentare questo mio affrancamento utilizzando i segni
grafici di Luzzati, e quindi quelli della rive gauche genovese, del nuovo Porto Antico, del Carlo Felice restaurato, del cartellone astrattista del Teatro della Tosse. Ma (diamine!) il soggetto che avevo selezionato, tra tutti i possibili, aveva tradito la mia natura: quelle “quattro stagioni” facevano tanto garzonetta che sogna con occhi lucidi, da lontano, la grande città, teneramente petite bourgeoisie, non conformista ma irreparabilmente conformata.
Stamattina ho preso coscienza di una grande verità: ovunque io possa andare non potrò facilmente sottrarmi dall’ essere una “ragazza delle delegazioni”. Ora rimane da capire se questa cosa sia un male o un bene, ma forse mi serviranno altre tazze di latte bollente per ragionarci su.
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3 commenti su “ Le quattro stagioni ”
Comments are closed.
Bravissima Teresa… Mi sono riscoperta in queste tue riflessioni… Anche io, noi, abbiamo e apprezziamo l’arte di Luzzati (Lele). Complimenti!!!
Un articolo che è molto di più, è una storia di vita, è la voglia e la capacità di condividere le narrazioni di famiglia, quelle che sono alla base di ciò
che diventeremo in futuro.
Grazie Teresa per avere condiviso momenti e sentimenti con chi ti legge. E di averlo fatto così bene.
Bingo! Per chi ha vissuto a Genova in quei fortunati anni è facile riconoscersi in queste bellissime riflessioni a …”latte caldo”. Si era usciti da un periodo difficilissimo e di rara violenza e la Città stava rinascendo con la tenacia di chi voleva caparbiamente cambiare rotta. Se non per visite sporadiche, manco da tanto da una città dove ho vissuto la mia gioventù davanti al porto ed alla Lanterna. E’ sempre bellissima ed ambita da una moltitudine di visitatori certo, ma non è più la mia Genova, quella delle belle stagioni.