Mirette Tanska, storia di una nobildonna estrosa finita in manicomio

Mirette Tanskâ, al secolo Maria Giuseppina, era nata a Parigi nel 1860, figlia del barone Giuseppe Vittore de Tansky, nobiluomo polacco, trasferitosi nella capitale francese. La sua vita è stata raccontata in un libro di Armando Di Raimondo (1).

La nobildonna era convolata a nozze con il marchese Luigi Cambiaso, nato nel 1843, appartenente all’omonima famiglia genovese; gli sposi si erano stabiliti alla “Centuriona” di Gavi, all’epoca di proprietà della nobile famiglia. Il fabbricato, tuttora esistente, è prospicente la strada che, da Gavi, conduce a Carrosio-Voltaggio. La sua edificazione – attribuita al potente Adamo Centurione, banchiere del re di Spagna Carlo V – risale alla seconda metà del 1500. 

Gavi, villa “La Centuriona”. Immagine risalente alla metà XX del secolo circa.

Dalla unione di Luigi e Mirette, nel 1879 nacque la primogenita Elena, cui seguirono Santo e Stefania; tutti vennero al mondo a Gavi, presso la “Centuriona”.

Un dipinto, probabilmente commissionato dal marito nel 1879, dopo la nascita della primogenita, ritrae Mirette “stretta in un abito scuro con in capo un pizzo bianco, finemente ricamato”. Il quadro era opera del pittore Santo Bertelli, nato ad Arquata Scrivia nel 1840, noto all’epoca come ritrattista, cresciuto artisticamente a Gavi nella “bottega d’arte” dei fratelli Montecucco. Il dipinto testimonia la frequentazione della nobildonna con l’artista arquatese, con il quale, secondo le cronache dell’epoca, avrebbe avuto una relazione.

Copertina del libro di Di Raimondo.

Dall’incontro con il pittore aumentarono gli interessi artistici della Marchesa; ne divenne allieva, modella, e, come detto, forse anche amante. 

Mirette era solita ritirarsi nella torre del palazzo della “Centuriona” dove dipingeva, si suppone guidata dal Bertelli, almeno agli inizi della sua passione artistica; decorò le pareti del suo “atelier”con figure fantastiche e frasi inneggianti la libertà.

Indubbiamente la Marchesa era di carattere estroverso e teneva un comportamento molto libero per l’epoca; le sue frequentazioni con il mondo dell’arte la resero invisa al mondo borghese e conservatore frequentato dal marito, Luigi Cambiaso. Da questa dicotomia derivò la rottura fra i due coniugi.

Mirette a Basaluzzo nella Cascina “La Rocca”

Mirette, quando i figli divennero adolescenti, lasciò il marito e si stabilì a Basaluzzo, presso la Cascina “La Rocca”, ribatezzata dalla nobildonna “La Rosa”; con sé portò la primogenita Elena, che successivamente tornò negli aristocratici ambienti paterni, e la terzogenita Stefania, appassionata e dedita alla pittura come la madre.

Basaluzzo, Cascina “La Rocca”. Immagine della metà XX secolo circa.

Dal suo trasferimento a Basaluzzo il rapporto con il marito e, più in generale, con la famiglia Cambiaso, divenne sempre più turbolento; ne sono testimonianza le volontà rese pubbliche da Luigi Cambiaso, dopo la sua morte, avvenuta nel 1902 presso la “Centuriona”. Il Marchese nominò erede univesale il figlio maschio Santo, mentre alle due figlie riconobbe una “legittima” di settantamila lire (corrispondenti, oggi, ad oltre 340.000 euro). Nel testamento ricordava la moglie, ma solo per enumerare quanto aveva portato con sé lasciando la “Centuriona”. Recita il testamento:“… Lascio a mio figlio Santo i due braccialetti d’oro con i quattordici diamanti tolti dalla scatola di tabacco che Napoleone I regalò ad un mio antenato, braccialetti che mia moglie si portò via quando abbandonò il tetto coniugale, rilasciandomene però dopo ricevuta, che si troverà tra le mie carte e gli lascio pure il collier di perle del quale è fatto cenno in detta ricevuta, volendo che questi ricordi rimangano in famiglia”.

La nobildonna, nella residenza basaluzzese continuò l’attività artistica, ornando, a modo suo, l’edificio; i dipinti erano, in parte, testimonianza del rapporto conflittuale con la famiglia Cambiaso, che, a suo dire, non aveva accettato “signorilmente” la decisione di abbandonare il marito e che, anzi, le creò non pochi problemi. 

Simbolicamente Mirette raffigurò i suoi “nemici” in cucina, sopra la grande cappa del camino, “… perché vi ardessero eternamente, circondati da scritture derisorie ed un poco infamanti, sopra le fiamme del focolare”, secondo la descrizione di un giornalista che, nel 1908, visitò la cascina “La Rocca”.

Il giornalista era rimasto particolarmente colpito dagli affreschi che ornavano la casa e da un enorme roseto voluto dalla stessa, tanto che la magione era stata da lei ribattezzata “La Rosa”, nonché della vita estrosa che le tre donne conducevano; raccontava infatti che, talora, si esibivano nel parco della cascina in abiti medioevali “… insieme a qualche fida ancella coperta di abiti equali, sembra ch’esse debbano andare a raggiungere i quattromila cavalieri che marciarono fino alla riva del fiume Magno ad incontrar Berthe au-gran-pied…”

Una vita dispendiosa

Un ritratto di Mirette eseguito dal pittore Santo Bertelli nel 1879

La donna conduceva una vita dispendiosa, contraendo parecchi debiti, e non da meno era il figlio Santo, il quale visse per un certo periodo alla “Centuriona”, ereditata dal padre, per poi trasferirsi in Inghilterra e, nel 1910, da Liverpool a New York. Santo teneva uno stile di vita sconsiderato, accumulando diversi debiti a causa dei quali, nello stesso anno, dovette ipotecare la “Centuriona”.In particolare, era debitore per ben 239.000 lire (corrispondenti a oltre due miliardi di vecchie lire, ovvero più di un milione di euro) a Giulio Camagna, facoltoso medico di Capriata d’Orba. Non volendo rientrare in Italia, Santo Cambiaso delegò la madre a vendere la “Centuriona” per sanare le pendenze; e così fu proprio il dottor Camagna ad acquisire la proprietà, al costo di 160.000 lire. L’operazione condotta da Mirette, sebbene su delega del figlio Santo, non fu gradita ai Cambiaso, i quali non potevano accettare che la tenuta di famiglia fosse passata ad altre mani; inoltre sospettavano che i proventi ricavati potessero essere utilizzati, in qualche modo, dalla Marchesa.

Come detto, anche Mirette conduceva una vita dispendiosa, ragion per cui la tenuta “La Rocca” di Basaluzzo si trovò gravata da numerose ipoteche; pertanto, nel 1912, la proprietà fu ceduta a Giobatta Raggio, il quale corrispose 80.000 lire al solito creditore dottor Giulio Camagna di Capriata d’Orba, a saldo dei prestiti ricevuti dalla nobildonna.

Mirette e Stefania in manicomio a Quarto

La mattina del 29 maggio 1918 due poliziotti, accompagnati da infermieri, bussarono alla porta dell’alloggio dove risiedevano Maria Giuseppina Tanskâ, vedova Cambiaso, detta Mirette, e Stefania Cambiaso fu Luigi, detta Cinca; le due signore abitavano nel quartiere Righi di Genova. Avevano vissuto per un certo periodo a Parigi, presso parenti del padre della Marchesa; il ritorno a Genova era stato consigliato dai legali delle due donne, allo scopo di cercare di ottenere la loro parte di eredità. In realtà, erano riuscite ad aggiudicarsi solo un modesto vitalizio. 

La visita inaspettata le aveva lasciate interdette; ma, presto, il Maresciallo aveva letto l’ordinanza del Questore di Genova, che prevedeva il loro trasferimento coatto nell’Ospedale Psichiatrico di Genova-Quarto. Nessuna altra spiegazione potevano fornire i poliziotti: comunicarono soltanto che avrebbero avuto modo di avanzare le loro ragioni con il Procuratore del Re, e quindi procedettero al trasferimento a Quarto. Il 17 luglio successivo il magistrato, confortato anche da medici dell’ospedale psichiatrico, emise sentenza definitiva per il ricovero coatto di Mirette e Stefania. 

Il manicomio di Genova-Quarto.

A nulla valsero i tentativi di Vittorio Alvigini di Garbagna, amico e frequentatore della casa di Basaluzzo, che nel 1919, dopo aver fatto visita alle due malcapitate e aver parlato con il Direttore del manicomio, si era offerto, allo scopo di far uscire le due donne dall’ospedale, di ospitarle nella sua casa in val Grue e di esserne il tutore. Alvigini si era rivolto al Presidente del Tribunale per ottenerne la tutela, dichiarando che, certamente, “… le suddette Signore avranno commesso qualche stramberia come era e sempre stato il solito frequente della madre ma poi pazze no”.Sosteneva inoltre che le due donne erano sconvolte per le liti ancora pendenti in Cassazione sulla eredità Cambiaso, concludendo infine: “… Io nutro sospetto che qualche persona contraria alle medesime le abbia fatte ritirare come pazze”.

Nel tempo, Mirette e Cinca ricevettero anche una strana proposta di fuga dall’ospedale, che rifiutarono, temendo si trattasse di un tranello per rinchiuderle in condizioni ancora più precarie e restrittive.

Le condizioni di vita all’interno del nosocomio erano tali da far presto precipitare le due donne in condizioni di disperazione. In una lettera Mirette scrisse al Direttore dell’Ospedale: “… Mi scusi l’emozione e la fretta. Libere saremo così modeste e spaventate di perdere nuovamente la libertà che credo non daremo luogo a rimprovero di sorte. Credo sia utile questa libertà perché moralmente noi soffriamo essere chiuse ma non per uscire per una novella prigione”.

Mirette si spense nel manicomio di Quarto il 3 febbraio 1935, dopo circa diciassette anni di reclusione; Stefania, probabilmente, riuscì ad uscire dall’ospedale psichiatrico, aiutata dalla famiglia Cambiaso.

Lorenzo Robbiano

Fonti:

  1. articolo liberamente tratto: “ Mirette Tanskâ Cambiaso, una donne della Belle Epoque fra Arte e follia”, Armando Di Raimondo, Erga Edizioni, 2010.

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