L’equilibrio delicato: la sfida dell’integrazione e della salvaguardia dell’identità 

Una delle trappole del nostro mondo è costituita dalla questione dell’identità.  Identità tocca una sfera molto delicata, visto che fu proprio essa il nucleo ideologico della Germania nazista: “Blut und Boden”; “sangue e suolo”, insegnavano. E ogni discorso sull’identità deve avere sempre ben presente tale ammonimento della storia. 

D’altro lato è altrettanto vero che il sangue e suolo conferiscono identità perché altrimenti un testimone non certo sospettabile di nazismo quale fu Primo Levi non avrebbe potuto scrivere così rispondendo a un lettore tedesco che gli contestava la possibilità di parlare di tedeschi o di italiani in quanto entità unitarie: “Sono d’accordo con lei; è pericoloso, è illecito parlare dei tedeschi o di qualsiasi altro popolo come di un’entità unitaria non differenziata e comune accumulare tutti i singoli in un giudizio. Eppure non mi sento di negare che uno spirito di ogni popolo esiste (altrimenti non sarebbe un popolo). Chi non sente in sé questo spirito, che è nazionale nel miglior senso della parola, non solo, non appartiene per intero al suo popolo, ma neppure è inserito nella civiltà umana” (Primo Levi, I sommersi e i salvati, ed. 1996). 

Oggi si discute sulla sorgente che conferisce a un essere umano l’identità italiana detta nazionalità: c’è chi sostiene che sia il nascere da genitore italiano, quindi “il sangue” (ius sanguinis). Chi il nascere in Italia, quindi “il suolo” (ius soli). Chi la formazione ricevuta in Italia, quindi “la cultura” (ius scholae). 

Ma al di là della teoria, ci sono i fatti; ed eccoci al fenomeno delle migrazioni. I migranti ci sono sempre stati nella storia dell’umanità, ne hanno costituito una ricchezza, rendendola cambiamento ed evoluzione e non staticità e ripetizione dell’identico. Termine che significativamente, come anche “idiota” o “idiozia”, ha la medesima radice di “identità”. 

Così scriveva Seneca: “L’impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si traeva dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana …” (Consolazione alla madre Elvia). 

Il punto però è che oggi siamo alle prese con un fenomeno di una vastità immensa mai visto prima d’ora nella lunga storia dell’umanità; già ora i migranti sono molti; probabilmente più numerosi della capacità psichica di accoglienza posseduto da un individuo medio, ma coloro che cercheranno di venire a vivere in Occidente saranno sempre di più. È logico: noi al loro posto faremmo altrettanto. 

Rifiutare sistematicamente l’ingresso a queste persone, impedendo l’attracco delle loro navi nei nostri porti o addirittura non soccorrendo le loro imbarcazioni in pericolo in alto mare è una soluzione che se preserva la nostra identità, uccide la nostra umanità. Ci fa rimanere italiani, ma ci fa cessare di essere umani. E a cosa ci servirebbe essere italiani se non siamo più umani, ma disumani? 

Se non accogliamo tradiamo noi stessi; tradimento tanto più grave per noi italiani che nei due secoli passati eravamo in milioni a emigrare.
Ed ecco delineata la trappola sociale in cui siamo caduti e da cui attinge la politica di certa destra. Che dobbiamo fare? Non possiamo non accogliere, ma al contempo non possiamo sempre accogliere.

Per non accogliere sempre però bisogna essere pronti a respingere. Siamo pronti a respingere? Io spero di no; e l’unica certezza che mi viene in mente è che di sicuro siamo caduti in una trappola “nec sine te, nec tecum vivere possum” (Ovidio). A meno che non decidiamo di ricordarci una volta per sempre che siamo tutti, primo di tutto, esseri umani.

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Alessandro Reale

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