Si è concluso pochi giorni fa il Salone del Libro di Torino, una grande festa dedicata alla cultura, alla parola scritta e parlata; quindi, alla nostra meravigliosa lingua che da alcuni anni a questa parte è percorsa da un acceso dibattito sul suo uso corretto, ma non dal punto di vista grammaticale e, infatti se ne vedono i risultati negli innumerevoli strafalcioni scritti anche da letterati, docenti, giornalisti e da tutti coloro che della lingua corretta dovrebbero farsi portatori.
No, il dibattito di cui sopra si concentra sul come rendere l’italiano una lingua più inclusiva e meno legata al predominio del genere maschile (così si dice). Questione davvero centrale questa dell’integrazione del genere nella lingua, in un paese in cui il 47% degli individui (dati ISTAT 2020) risulta affetto da “analfabetismo funzionale”, o “di ritorno”, espressione con la quale si indica persone che, nonostante siano istruite, sappiano leggere e scrivere, non sono più in grado di usare lettura, scrittura e capacità di calcolo per lo sviluppo cognitivo proprio e della società. Con i risultati sotto gli occhi di tutti. Però usano lo scwha (portate pazienza, tra poche righe spiego di cosa si tratta per chi ancora non lo sa), non saranno in grado di scrivere ma, almeno, nel farlo in modo errato potranno rivolgersi a tutt-schwa (dovete sapere che nella tastiera la e rovesciata non esiste e io non riesco a produrla: una ragione ci sarà? Oltre alla mia inettitudine, naturalmente).
Cercando di farmi una cultura in merito, scopro che questo simbolo fa parte dell’alfabeto fonetico internazionale, il sistema che si utilizza per definire la corretta pronuncia delle migliaia di lingue scritte esistenti al mondo. Nello specifico, lo schwa indica una vocale intermedia ed è presente in diversi dialetti italiani, ma si ritrova questo termine già nell’ebraico medioevale, intorno al X secolo d.C. con un’etimologia non chiara ma direi particolarmente interessante: potrebbe, infatti, essere parente della parola ebrea shav, “niente” ed essere anche connessa al significato di “pari” o “uguale”. Insomma, andando oltre la storia, qualcosa di niente e qualcosa di uguale? Perché a mio parere l’uso dello schwa mette bene in luce il “niente dell’uguale”, lo chiamerei così, a metà tra una “a” e una “o”, le nostre vocali del femminile e del maschile, di fatto lo schwa resterebbe un ibrido confuso, erede dell’asterisco (*), pur con il nobile scopo di trovare una soluzione alternativa al predominio del maschile nel nostro linguaggio, e definito dalla linguista Vera Gheno “la vocale media per eccellenza”, quella della par condicio che fa tanta moda oggi, del siamo tutti uguali ed è più facile sostenerlo con un fonema scritto che con atteggiamenti e comportamenti che mettono in gioco personalmente.
E chi più ne ha, più ne metta, permettetemi, senza giudizio alcuno e potrete verificarlo proseguendo nella lettura, ma trovo questa questione una vera boutade che nulla ha a che fare con la parità, l’uguaglianza tra esseri umani, che dovrebbe restare il massimo valore per tutti, con o senza schwa.
Ma andiamo con ordine e torniamo alla letteratura da cui siamo partiti, in particolare al nuovo libro di Domenico Starnone, “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”, nel quale l’autore fa ampio uso di schwa, e lo fa per un motivo molto semplice. Prima, però, alcuni commenti in proposito da parte dei lettori su Twitter, che ben identificano le varie scuole di pensiero. Si va da commenti esasperati, “ma che due palle” e “un libro in meno da leggere” ad altri più ironici e analitici, “a Napoli usavamo la schwa prima di sapere che si chiamasse schwa” (commento da applauso) e “diciamo che chi usa la lingua madre foggiana è avvantaggiato”, fino al mio preferito: “ecco meglio come translitterazione del napoletano che le rivoluzioni non si fanno con un carattere”.
Vero.
In questa corsa all’uguaglianza peraltro urlata, sbandierata, e si sa che quando si ha bisogno di alzare la voce, più spesso è perché il contenuto è poco consistente e ha basi molto fragili, si perde di vista prima di tutto la realtà incontrovertibile, negata persino dai sondaggi di alcuni enti e aziende che, nella raccolta dei dati anamnestici, nel chiederti il sesso ti pongono quattro opzioni (quattro!): maschio, femmina, non binario, altro. Sarò antica, tradizionalista, fuori contesto, ma per me questo è negare l’evidenza, la realtà della natura umana, è pura fantasia, perché la genetica umana è una, i caratteri sessuali sono quelli, maschio e femmina, ovviamente fatta eccezione per rarissime patologie che non sono oggetto qui di discussione, oltre ad essere pericoloso in quanto rischia di creare un distacco che porta il pensiero nella suggestione, lontano da un processo naturale di adattamento al mondo, e una confusione davvero inutile nelle menti soprattutto dei nostri giovani.
Ognuno di noi, se ne faccia una ragione, nasce femmina o maschio (alterno nell’ordine i due termini per non incorrere negli strali dei seguaci dell’uguaglianza acritica e a ogni costo), che poi nell’evoluzione personale io maturi verso un’identificazione sessuale differente, non corrispondente al mio sesso biologico, allora è un’altra storia che riguarda me come persona singola. Che si usi lo schwa per includermi, personalmente, mi lascia tra il divertito e il basito e penso sia un problema dell’altro che si rapporta con me, anzi, che non sapendosi rapportare con me che ai suoi occhi sono diverso, usa questa come modalità che fa tanto politically correct, terrorizzato a sua volta di essere discriminato se non si conforma al pensiero comune. Come vedete io uso spesso il maschile, è vero, ma non è che bisogna sempre cambiare tutto della nostra tradizione, perché è esattamente come non cambiare nulla. Il rispetto delle persone deve partire dalla consapevolezza primaria che come esseri umani siamo tutti uguali, dovremmo, e uso purtroppo il condizionale, avere tutti gli stessi diritti e doveri, non esiste al mondo uomo (maschio o femmina che sia) migliore di un altro, ma nell’evoluzione di ogni singolo essere umano, l’ambiente, l’educazione, le possibilità economiche e culturali, il solo fatto di essere nati dalla parte giusta o sbagliata del mondo, e poi le esperienze, gli incontri, ci rendono diversi, femmine e maschi comunque, necessari nella loro originale e complementare diversità, esattamente uguale a chi maturando sente che il proprio corpo biologico contiene un’identità non corrispondente alla genetica.
Ma ciò che non esiste è l’assenza di identità, il “niente” da cui siamo partiti e che mi sembra tanto trovare nello schwa la perfetta sintesi dell’apparenza che non fa che allontanarci dalla vera essenza dell’essere umano e dal desiderio insito e naturale di una condivisione genuina e rispettosa dell’altro (!).
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Un commento su “Non basta rovesciare una ə per modificare le percezioni personali”
Comments are closed.
Il vero problema, da sempre (non solo oggi, quindi) è che non si è in grado di parlare di “persone”, a prescindere dal sesso. Uomo e Donna sono diversi per morfologia, ma la stessa differenza la troviamo anche nello stesso sesso : un uomo alto 1.60 e con il peso di 55 Kg ha una forma diversa rispetto ad un uomo alto 1.90 del peso di 100 Kg, soprattutto a livello di performance fisico, lo stesso omino di 55 Kg ne avrà di inferiori rispetto (ad esempio) ad un “donnone” alto (alta?) 1,90 con 100 Kg di peso. Ciò che tutti facciamo, nella nostra società, è classificare le persone; le modelle devono essere alte e magre; un uomo politico (e soprattutto una donna politica) deve essere “di bell’aspetto” (es. Brunetta viene immediatamente giudicato per la sua altezza, non per il suo cervello). Il giorno che parleremo di “persone” senza classificarle, potremo usare tutti i generi che vogliamo, riferiti a ciò che si vuole. In realtà il problema della nostra società è la “classificazione”! Dovrebbe esistere un (una?) schwa per ogni “differenza”? Ma perchè invece non trattiamo le persone “come persone” e manteniamo le differenze di genere? sarebbe così bello …