Un viaggio in treno di circa sei ore, andata e ritorno, complice la comodità delle Frecce ed ecco che “Anime perdute”, il romanzo di Moloc, al secolo Salvatore Sacco, mi travolge trascinandomi dentro le sue pagine.
Fino ad arrivare all’ultima dove, lasciata senza fiato, citando Salinger, chiudo il libro e vorrei che l’autore fosse un mio amico per la pelle per poterlo chiamare al telefono tutte le volte che mi gira (“Il giovane Holden”). Il fatto è che io ho letteralmente divorato questo romanzo, proprio come i personaggi sono stati divorati e sopraffatti dalle loro paure in un crescendo che inchioda il lettore, nel mio caso, al sedile del treno.
Ammetto che se lo avessi visto esposto in libreria, probabilmente per gusto personale non gli avrei prestato attenzione, la copertina così scura, il contrasto nero e rosso che rimanda al sangue sono elementi perfettamente combinati per far pensare a un noir, che non è un genere che prediligo. Lo stesso dicasi per il titolo, certamente efficace ma per il quale vale lo stesso discorso, non mi avrebbe attratto, e sarebbe stato un vero peccato, anzi, ora che ho letto il libro credo non renda giustizia alla qualità della scrittura e del contenuto.
Devo quindi ringraziare di aver assistito alla presentazione, durante la quale sono rimasta affascinata dal modo di raccontarne di chi lo ha scritto, ma soprattutto dalle parole entusiastiche di chi lo ha letto e introdotto. Mai, quindi, fu più vero il consiglio di non giudicare un libro dalla copertina: in questo caso assolutamente calzante, bisogna andare al di là, aprire il libro e cominciare a leggere, perché con la sua narrazione Moloc ti trascina direttamente dentro, non devi attendere pagine e pagine, l’interesse e la curiosità vengono attivati immediatamente. E ad ogni pagina arrivi al fondo e ti chiedi cosa succederà, sei fortunatamente costretto ad andare avanti, e poi a leggere il capitolo successivo e così via.
Tu vuoi sapere cosa sia veramente successo a Torassòla e non dipende dal fatto che la vicenda si svolga in un immaginario paese collocato nel reale territorio in cui vivo, questo è un aspetto che passa ben presto in secondo piano a favore della storia, che deduci, a volte intuisci, ma manca sempre un pezzo. Ed è quel pezzo che non puoi fare a meno di continuare a cercare in una sorta di legame di dipendenza con la vicenda che l’autore riesce a creare. Sapete quando si può capire di essere dipendenti da qualche cosa? Quando dal fare quella cosa perché ci fa sentire meglio, si passa al farla in quanto senza si ha la sensazione di non poter più stare bene.
Questo libro mi ha fatto esattamente questo effetto, lo stesso creatomi tempo fa da un altro romanzo molto conosciuto, “La verità sul caso Harry Quebert” di Joël Dicker, anche in questo caso non riuscivo a smettere di leggere. Non solo, ripensando a queste letture mi rendo conto che i due libri hanno in comune un altro aspetto: la trasposizione cinematografica. Dal libro di Dicker è stata tratta una serie per la televisione e il libro di Moloc si presta perfettamente da sceneggiatura per un film. I due autori, infine, credo abbiano lo stesso pregio, quello di dire abbastanza per avvolgerti nel loro raccontare ma non tanto da farti scemare l’interesse, al contrario, aggiungendo ogni tanto quel particolare che non avevi previsto e che dà riavvio alla storia continuamente, quasi ad ogni riga.
“Anime perdute” non è un racconto che parte e arriva, ma ha tante ripartenze di strade diverse dallo stesso punto, che poi si uniscono tutte improvvisamente sul finire della storia: arrivi all’ultima pagina e ti dispiace di aver terminato. Ma proprio non posso raccontarvi nulla della trama, ogni accenno potrebbe essere disturbante alla sorpresa della lettura, alla suspence che l’autore ha saputo creare con sapienza, non c’è pagina che non contenga un elemento fondamentale e necessario: la musica, le rose, la pioggia, la persiana tenacemente attaccata che sfida le intemperie e le sigarette mai fumate. Questo libro va solo letto.
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