L’intervento della Presidente dell’Anpi Graziella Gaballo per il 25 aprile

Mi fa molto piacere essere qui con voi oggi a celebrare questo 78mo anniversario della Liberazione e ringrazio chi mi ha invitato a farlo. Rivolgo anzitutto un saluto alle autorità civili, religiose, e militari, alle rappresentanze combattentistiche e d’arma, alle varie associazioni, alla banda musicale, ai cittadini e alle cittadine che hanno scelto di essere qui.

Sento tutta la responsabilità di essere stata chiamata a dare significato a un momento di riflessione, l’emozione di parlare nella mia città e il peso di farlo non a titolo strettamente personale ma come presidente della sezione locale dell’Anpi. 

Il 25 aprile è un giorno di festa, in cui si celebra una vittoria: una vittoria militare contro le forze nazi-fasciste; una vittoria politica, che si concretizzò nell’avvento della democrazia e della Repubblica e nella elaborazione della Costituzione e una vittoria etica, un riscatto morale avvenuto grazie all’impegno attivo di chi ha preso parte, nelle sue diverse forme, alla guerra di Liberazione. 

A più di settantacinque anni di distanza, mi sembra utile focalizzare l’attenzione soprattutto   sul forte spessore politico ed etico della Resistenza, perché la lotta partigiana non può certo essere ridotta alla sua pur importante dimensione militare. Per questo, quella del 25 aprile non è una celebrazione rituale, frutto di una cultura da calendario, di una storia appiattita sulla cronologia, ma qualcosa di ancora vivo e vitale; di quel giorno, di quella gioia, di quei progetti, di quei sogni – che chi, come me, non ha vissuto per ragioni anagrafiche ha comunque ereditato- ci restano libertà che spesso sembrano scontate e definitivamente acquisite, anche se invece così scontate e definitive non sono. 

Già durante il periodo della dittatura molti uomini e molte donne avevano manifestato e testimoniato un antifascismo che costò loro persecuzioni, esilio, prigione, morte. Ma fu soprattutto con l’8 settembre 1943 che tutti dovettero con più chiarezza fare i conti con la necessità di operare una scelta. Quando – dopo l’ingloriosa fuga del re e di Badoglio che fece seguito all’annuncio dell’armistizio da loro firmato segretamente qualche giorno prima –  crollò lo Stato e si azzerarono i punti di riferimento, ognuno fu infatti lasciato solo con la propria coscienza, costretto a scegliere da che parte stare, dando inizio a un percorso in cui ci si riappropriò della libertà, nutrita dalla consapevolezza di dovere e potere decidere da soli il proprio destino e quello degli altri. “La crisi dell’autorità – scrisse a suo tempo lo storico Guido Quazza – diventò assunzione di responsabilità da parte del singolo, si trasformò in nascita della partecipazione e dell’autonomia”.

Non tutti però reagirono allo stesso modo: vi furono tantissime scelte individuali. Ci fu chi scelse di non scegliere, aspettando, “attendendo” in maniera opportunistica quello che sarebbe successo – la cosiddetta zona grigia, dell’attendismo; ci fu l’estrema varietà di reazioni che ebbero reparti e uomini, chiamati dalla latitanza colpevole dei governanti alla scelta individuale tra  resistenza o resa,  collaborazione con i tedeschi o  fedeltà al re e l’esercito, lasciato allo sbando, fu  pronto in molti casi ad assumersi il peso delle scelte e, come nell’eccidio di Cefalonia o in tanti altri episodi,   a pagarle fino in fondo; ci fu chi aderì alla Repubblica di Salò e ci fu chi scelse invece di combattere contro le forze nazifasciste, dando vita alla resistenza, movimento assai variegato, non facilmente ricomponibile sotto un’unica etichetta o interpretabile con un solo criterio e in cui indubbiamente confluirono anche decisioni occasionali o desideri di avventura adolescenziali, ma che nella sua radice più profonda fu caratterizzata da un forte spessore ideale e morale, da  assunzione di responsabilità e dalla volontà di dar vita a un nuovo Stato giusto e democratico

La resistenza fu corale, per la rappresentatività dei partecipanti. Si realizzò una partecipazione, relativamente limitata per numero, ma qualificata, che coinvolse tutte le componenti del nostro popolo, dagli operai ai contadini, dai ceti popolari ai ceti medi, dagli intellettuali ai proletari, dai laici ai sacerdoti, dagli uomini alle donne. Mai nella storia d’Italia si era registrata una così vasta partecipazione popolare a un evento militare e bellico; per la sua ampiezza, la dimensione volontaria del partigianato non ha precedenti: in nessuna altra fase della nostra vita nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e un tal numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana. 

Ma la Resistenza, va ricordato, non è riconducibile solo alla lotta armata. Ci furono infatti tanti modi di dire no ai nazifascisti, e che comportarono rischi non inferiori al combatterli con le armi. “Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale – ha scritto uno dei più grandi studiosi della resistenza italiana, Claudio Pavone- è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedienza a un governo legale, perché proprio chi detenesse la legalità era in discussione, quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi obbedire”.

Quando dopo l’8 settembre 1943 la guerra entrò nelle case degli italiani e delle italiane, ogni giorno bisognava decidere cosa fare. Non fu facile, per molti, ma le città e le campagne si rivelarono capaci di grande coraggio. Nonostante le ordinanze e i feroci proclami dei nazifascisti proibissero ogni sorta di solidarietà con i perseguitati, la gente imparò a disubbidire e fin dalle prime ore dell’occupazione migliaia di famiglie nascosero e ospitarono uomini e donne in fuga: militari alleati, sbandati e antifascisti, ebrei. 

Nei confronti degli ex prigionieri alleati la solidarietà – quella contadina in particolare- non conobbe remore di sorta. All’ 8 settembre 1943, in Italia questi erano raccolti in 72 campi e in 12 ospedali. Erano circa 85 mila. Un terzo di essi si inabissò nelle campagne italiane scomparendo agli occhi dei tedeschi e dei fascisti. Fu un’opera disinteressata e rischiosa; per chi dava ospitalità a un ex prigioniero era pronta l’accusa di tradimento, mentre veniva riconosciuto un premio in denaro a chi ne permetteva la cattura. Altrettanto indiscutibile fu la generosità con la quale molti si presero cura degli sbandati dell’esercito, per rivestire i quali con abiti civili saltarono fuori giacche, pantaloni, indumenti borghesi di figli lontani, dispersi o morti sui vari fronti di guerra.  Furono soprattutto le donne a dare vita a questa grandissima operazione di salvataggio, forse la più grande della nostra storia, che venne condotta in assenza di direttive politiche e   in cui rientrarono anche la lunga ospitalità offerta ai prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento italiani dopo l’armistizio, l’aiuto agli ebrei, banco di prova della resistenza civile in tutta Europa oltre, naturalmente, all’appoggio alle nascenti formazioni partigiane. Fu un maternage di massa, come è stato definito. Dare rifugio e cibo ai “ribelli” era una sfida agli occupanti e ai fascisti, con un prezzo da pagare altissimo: incendi, violenze, punizioni esemplari. Eppure accanto alla Resistenza in armi prese forma un fenomeno di “disobbedienza civile di massa” che non aveva precedenti nella nostra storia, in piena contrapposizione con la cultura fascista del “credere, obbedire e combattere”, e che costituisce per noi un lascito prezioso.  

E ripresero anche le forme di protesta operaia: gli scioperi del marzo del 1944 nel triangolo industriale – Genova, Torino, Milano – furono un evento unico nell’Europa occupata dai tedeschi. Se negli scioperi che avevano punteggiato il corso del 1943 sembravano prevalenti i motivi economici e la richiesta della cessazione della guerra, nel 1944 quelle lotte assunsero un aspetto decisamente politico e si configurarono come uno scontro aperto con la Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca, che prevedeva lo sfruttamento intensivo delle risorse industriali italiane e non poteva prescindere dal controllo sull’attività produttiva. Ricordiamo, e l’abbi amo fatto in fabbrica pochi giorni fa, gli operai dell’ex Europa Metalli, ora Hme-Sct di Serravalle Scrivia Antonio D’Agostino, Luigi Rossi, Manlio Socci e Umberto Fadda, uccisi dai tedeschi perché lottavano per difendere la loro fabbrica, i loro impianti e la loro capacità produttiva dalla razzia operata dalle forze di occupazione in ritirata. Si stima che furono circa 12.000 gli operai che vennero deportati nei campi di concentramento tedeschi in seguito ad azioni di sciopero. Ma proprio la riappropriazione su vasta scala dello sciopero, un’arma di lotta per venti anni bandita dal fascismo, e il fatto che le fabbriche tornassero a essere un centro di organizzazione e di autonomia, furono la testimonianza di comportamenti segnati da un marcato protagonismo politico. 

La Resistenza fu anche la base su cui si legittimarono i partiti. Essi diedero vita a formazioni partigiane che, pur battendosi in un unitario disegno di liberazione nazionale, non rinunciavano a definirsi sulla base di precise opzioni politiche e partitiche. Nacquero così le formazioni Garibaldi che si richiamavano al partito comunista, quelle di Giustizia e Libertà collegate al Partito d’Azione, le “Matteotti” socialiste e le “Autonome” di orientamento monarchico e liberale. Ma, soprattutto, i partiti stabilirono un nesso indissolubile tra antifascismo e Carta costituzionale, indicando attraverso l’Assemblea Costituente i lineamenti di una democrazia fondata sull’armoniosa convivenza tra i valori e le identità comuni alle tre grandi famiglie politiche e culturali che hanno fatto la storia del nostro paese, quella liberale, quella cattolica e quella socialista e comunista. E la nostra Costituzione – il cui testo può essere integrato, aggiornato, migliorato ma non puòessere contraddetto nei suoi principi fondamentali – è, osservava Calamandrei, giurista e uno dei padri Costituenti “la traduzione in formule giuridiche dello spirito della Resistenza”, il distillato possibile dei valori sociali e politici presenti nei programmi dei partigiani.

Ricordare, a distanza di decenni, quanto accadde allora in Italia e in Europa, non è soltanto un dovere, ma un vero e proprio obbligo morale. 

La “memoria” è qualcosa di estremamente importante: ci consente di ricordare fatti del passato per cercare di capirli, e trarne indicazioni valide anche per il presente ed è ciò che ci rende, storicamente e soggettivamente, quello che siamo, perché se il nostro presente viene deprivato di quel senso che scaturisce dalla conoscenza del tempo passato, diventa un quotidiano leggero e inconsapevole. E su questa memoria si fonda l’impegno a continuare quell’opera di costruzione della nostra democrazia, della nostra libertà e della nostra dignità, iniziata allora dalle resistenti e dai resistenti.

In particolare, credo che perpetuare il ricordo della Resistenza implichi il ritrovare anche oggi la stessa scintilla che scattò allora, e mettere in atto anche noi scelte consapevoli. In primis, quella appunto di conservare e tramandare la conoscenza e la memoria di quanto è stato, per evitare e contrastare ogni sorta di narrazione basata su ignoranza storica o fanatismo ideologico.  E poi di avere sempre come punto essenziale di riferimento la Costituzionechecon i suoi principi e i suoi valori costituisce il patrimonio culturale e spirituale del nostro popolo e che è,  ricordiamolo,  compiutamente antifascista, non solo e non tanto per la disposizione che vieta “la ricostruzionesotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” ma soprattutto perché ribalta completamente le categorie che hanno caratterizzato il fascismo, a partire dai  principi fondamentali che sono punto per punto in trasparente antitesicon la teoria e la prassi del fascismo. 

Se infatti  il fascismo assumeva la discriminazione come propria categoria fondante (sino all’estrema abiezione delle leggi razziali), i costituenti hanno invece assunto come fondamento della Repubblica italiana l’eguaglianza e l’universalità dei dirittidell’uomo; se il fascismo aveva soppresso il pluralismo, perseguendo una concezione totalitaria del potere, i costituenti hanno invece concepito una struttura istituzionale fondata su un sistema di pesi e contrappesi nel quale i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario godono ciascuno di una forte autonomia. E, ancora, se il fascismo aveva celebrato la politica di potenza e aveva costantemente alimentato un vero e proprio culto della guerra (“La guerra sta all’uomo, come la maternità alla donna” affermava Mussolini),  i costituenti, con ancora negli occhi le conseguenze di quel conflitto in cui il fascismo aveva trascinato l’Italia,  hanno invece voluto negare in radice questa politica di potenza, riconoscendo la supremazia del diritto internazionale e ribadendo che l’Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. E potremmo proseguire, ricordando che se il fascismo relegò la donna quasi esclusivamente al ruolo di “fattrice “ di figli per la patria e segnatamente per l’esercito, i costituenti sancirono invece  la parità tra i sessi;  e, ancora che l’art. 21  stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione e che” La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, mentre sotto la dittatura molte testate furono costrette a chiudere e la velina del Minculpop dettava  ogni sera alle redazioni il taglio degli articoli più importanti. E, infine, cito ancora l’art. 49 della ns carta costituzionale che stabilisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” mentre nel ventennio associazioni e partiti furono sciolti d’autorità. Ma potrei ancora proseguire, citando uno dopo l’altro tutti gli articoli della nostra Costituzione. 

Quello che mi premeva sottolineare è che ogni parola in quel testo segna una cesura, in contrapposizione con l’ideologia e l’esperienza storica del fascismo. Ed è per questo motivo che la nostra è una Costituzione non afascista ma dichiaratamente antifascista.

I valori racchiusi nella nostra Costituzione – libertà, eguaglianza,  lavoro, pace, solidarietà – non sono un elenco di parole astratte, ma rappresentano esattamente i nodi cruciali e attuali su cui misurarci concretamente, i principi che noi oggi dobbiamo difendere e sostenere, se vogliamo contribuire a costruire lademocrazia, che– lo ricordava  Tina Anselmi,partigiana, deputata, ministra  – è un regime politico esigente, che viene affidato alla nostra responsabilità giorno dopo giorno e che richiede una partecipazione e una presenza costante nella vita della comunità, perché  comporta insieme il diritto e il dovere di esserci.

E questo è il testimone che ci è stato passato, e dobbiamo esserne ben consapevoli.

Ce l’hanno passato i caduti della nostra zona – tra cui voglio ricordare oggi qui in particolare Ezio Tulipano (il partigiano Orfeo)  del distaccamento “Novi”, che è stato, a soli 19 anni,  la prima vittima della Benedicta e a cui  è intitolata la locale sezione dell’Anpi e Aldo Manfredi, Rinaldo Fossati, Domenico De Vita, Franco Marelli, Vittorio Podestà e Pasquale Mangiapia – di cui due quarantenni e gli altri poco più o poco meno che ventenni-  che furono, insieme al tortonese Mario Balustra, di 19 anni, gli ultimi caduti a Novi – i primi alla Tuara, il 26 aprile, il secondo nella zona tra piazza XX settembre e il ponte ferroviario nella notte tra il 26 e il 27 aprile,  prima della definitiva liberazione della città, che avvenne appunto il 27 aprile –   e a cui questa mattina la nostra comunità ha reso omaggio con la deposizione di corone di alloro nei luoghi in cui sono stati uccisi. E ce l’ha passato, questo testimone, anche chi ci ha lasciato in tempi più recenti e che,  fino all’ultimo,  di quegli eventi,  di quegli anni, di quei valori  ha trasmesso memoria con il racconto e con il comportamento; anche qui mi limito – chiedendo scusa per i tantissimi  che non nomino –  a ricordarne tre tra  coloro che ho avuto la fortuna di poter conoscere: Aurelio Ferrando, Scrivia; Sandro Ravazzano,  Cucciolo: Franco Barella,  Lupo.

E allora, davvero, affinché i principi e gli ideali per cui tanti hanno lottato rimangano vivi nelle nostre vite, nelle nostre comunità, nella società civile, ora e sempre Resistenza.

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Graziella Gaballo

Un commento su “L’intervento della Presidente dell’Anpi Graziella Gaballo per il 25 aprile

  1. Grazie professoressa,davvero…
    È necessario tenere sempre vivo il ricordo di chi si è sacrificato per la nostra libertà.

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