Erano gli anni ’70 del secolo scorso, frequentavamo lezioni serali in un Istituto scolastico privato, al quarto piano del cosiddetto palazzo Rosa. Fabrizio era il più giovane degli allievi, io ero più vecchio di qualche anno.
Eravamo i più giovani di quella classe, gli altri come minimo superavano i trent’anni, alcuni erano già padri di famiglia. La contestazione giovanile del ’68 aveva lasciato i suoi segni, la coda di quegli eventi era arrivata un po’ in ritardo in questa periferia.
A scuola entravamo poco prima delle 19 e uscivamo dopo le 23. A metà delle lezioni c’era l’intervallo d’uopo e quasi tutti scendevamo in piazza della Repubblica, entravamo nell’Albergo Ristorante Rico, a quattro passi dall’Istituto, per mangiare un panino imbottito magistralmente dai titolari del Ristorante. Lo mangiavamo velocemente (di “strangusoun” ), chiacchierando del più o del meno, di politica, per poi tornare sui banchi della scuola, perché la voglia di studiare era tanta, anche perché avevamo letto Antonio Gramsci che aveva scritto, tanto tempo prima: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”.
Poi arrivò la bella stagione e una delle tante sere, un insegnante, forse con poca esperienza, probabilmente doveva ancora laurearsi, entrò in aula assegnandoci il titolo di un tema: “E’ arrivata la primavera”.
Trasecolammo, non ci sembrava che quel titolo fosse adeguato alla nostra voglia di sapere e che quel tema era più adatto a bambini della scuola elementare. Ci rifiutiamo di svolgere quel lavoro. Ne uscì un diverbio con l’insegnante, che minacciò di rivolgersi al direttore della scuola, ma desistette, forse aveva capito che non era proprio il caso di insistere.
Fra i protagonisti della contestazione c’era Fabrizio che a quei tempi, politicamente parlando, era di sinistra ma da considerarsi un moderato, rispetto a chi scrive. Non fu, ovviamente, la contestazione globale dei capi del movimento studentesco assurti alle cronache nazionali, anzi l’episodio rimase tra quelle quattro mura, ma fu la dimostrazione che a volte anche “le formiche nel loro piccolo si incazzano”.
Fabrizio Dellepiane era un bel ragazzo, tanto che un insegnate delle scuole medie di Arquata lo chiamava il bel Fabrizio. Era un gadano, un gaudente, gli piaceva ridere scherzare, con l’immancabile pipa tra le labbra; mi chiamava il “Grigione” forse perché in quella aula della scuola serale ero già canuto.
Qualche estate fa, durante un venerdì di luglio a Novi lo trovai in un androne con altri “disperati come lui” a cantare appassionato in dialetto genovese. Passarono gli anni e da moderato Fabrizio si spostò più a sinistra e io divenni moderato (o forse lo ero sempre stato), ma siamo sempre rimasti dalla stessa parte della… barricata.
Ciao, Fabrizio.
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