Punire è davvero sinonimo di sicurezza?

La domanda non vi suonerà come nuova, ma sembra trovare risposte sempre uguali. Il nostro governo, con il Decreto Sicurezza, tenta di porre rimedio alla situazione con un atto banale mirato al consenso: aumentare le pene, introdurre nuovi reati e far passare la repressione per garanzia di sicurezza.

Tra le misure previste ci sono nuove aggravanti per reati commessi in spazi pubblici come stazioni ferroviarie o durante manifestazioni, il reato di “occupazione arbitraria” di immobili e pene decisamente severe per chi blocca strade o ferrovie, anche se da solo. È una risposta che sembra volta a rispondere alle notizie del telegiornale, sa di immediatezza, di forza, di “qualcosa che va fatto”.

Gherardo Colombo, ex magistrato noto per inchieste come Mani Pulite e la Loggia P2, nel suo libro “Il perdono responsabile” ci invita a riflettere su un modo differente di concepire la giustizia. Colombo critica l’approccio punitivo tradizionale, che punta a escludere e a reprimere, allontanandosi così dal luogo di rieducazione sancito dall’articolo 27 della Costituzione, secondo cui:

La pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.

Per affrontare la questione dovremmo inizialmente porci alcune domande:

1. Qual è la finalità della pena?
2. Qual è la misura più efficace?
3. Qual è il ruolo della vittima?

I problemi delle carceri: la pena come esclusione

Molto spesso la pena è vista in ottica retributiva per cui chi sbaglia deve pagare, ma se guardiamo al nostro sistema carcerario, ci accorgiamo che questa idea non funziona. 

Le prigioni sono sovraffollate e al limite del collasso, come riportato nel sito della polizia penitenziaria: “A marzo 2019, su 46.904 posti disponibili nei 191 istituti di pena, erano presenti 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129 per cento.

Questo spazio, pensato per redimere, alimenta alienazione e recidività: il 68% di chi sconta una pena esclusivamente in carcere torna a delinquere. Non c’è rieducazione, non c’è reintegrazione, c’è solo una sospensione della vita che nel migliore dei casi lascia tutto com’era, la maggioranza delle volte peggiora la situazione.

La pena, così come è concepita oggi, sembra rispondere più a un bisogno di vendetta sociale, eppure, una società si costruisce non sul “far pagare” ma sul “far capire”.

Per citare Battiato “L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero”.

Un’alternativa: giustizia riparativa

Se il carcere non funziona, bisogna allora chiedersi cosa potrebbe funzionare davvero. Per trovare risposte, possiamo guardare a esperimenti di giustizia riparativa, di cui molto spesso non si sente parlare, come il progetto La Navenel carcere di San Vittore che mira a risolvere il problema della tossicodipendenza nelle carceri. Il 25% dei detenuti in Italia sono tossicodipendenti, attraverso questo progetto essi sottoscrivono un contratto che li impegna a seguire attività mirate all’educazione alla legalità, alla mediazione dei conflitti, corsi per ricostruire il rapporto con i figli.

“La durezza non può che indurire. La retribuzione del male con il male non educa al bene.” 

Questi modelli riducono il rischio di recidività e restituiscono dignità sia al detenuto sia alla comunità. Perché allora non potenziarli e adottarli su larga scala? Forse perché richiedono più tempo, più impegno e soprattutto più risorse, altro aspetto cui il decreto sicurezza non ha posto particolare attenzione.

La differenza è sostanziale, la giustizia riparativa non punta a punire, ma a rieducare nel vero senso del termine. Il colpevole non è escluso, ma messo davanti alle sue responsabilità attraverso il confronto. È una giustizia che non chiude, ma si apre per concedere l’opportunità di comprendere, cambiare e, infine, reintegrare nella società.

Questo modello non è una concessione, ma invece un percorso complesso che richiede impegno da parte di tutti e spesso prosegue anche successivamente allo sconto della pena.

Qual è il ruolo della vittima?

Il processo tradizionale guarda al reato e alla pena, ma non si occupa, se non marginalmente, delle persone coinvolte, non è adeguata a una struttura di relazioni che parta dalla valutazione positiva del perdono. Si punisce per ristabilire un equilibrio astratto, senza porre attenzione sul dolore di chi ha subito il reato rimane ai margini.

La giustizia riparativa, invece, pone di mettere al centro la vittima e di offrirle un luogo per esprimere il proprio dolore, per essere ascoltata e, nel caso in cui si riesca, per costruire un dialogo con il colpevole del reato.

Non si tratta semplicemente di “perdonare e dimenticare”, ma di creare un contesto in cui la sofferenza trovi uno sbocco che non sia vendetta o sfiducia, perché la vendetta, come il carcere, chiude ogni possibilità di trasformazione.

I problemi complessi non hanno mai soluzioni semplici

Il Decreto Sicurezza sembra rispondere a domande diverse da quelle che ci siamo posti qui. Non si interroga sulla società che vogliamo costruire, ma cerca di rassicurare con risposte rapide, banali e probabilmente inefficaci.

La sicurezza non si costruisce escludendo, ma includendo. Non si ottiene con la repressione, ma con la responsabilizzazione. Non nasce dal silenziare il conflitto, ma dal trasformarlo in opportunità di comprensione e cambiamento.

Forse è ora di abbandonare la strada del “male con il male” e immaginare un sistema che metta al centro le persone: vittime, colpevoli e comunità; così ci avvicineremo a una società davvero più sicura.

Questa non è altro che l’ennesima trovata propagandistica, pensata per aumentare con semplicità il consenso, non di certo per risolvere problemi reali. Nel migliore dei casi, non produrrà alcun effetto concreto, limitandosi a sollecitare le pance di chi, incapace di andare oltre gli slogan, o forse faticando persino a comprendere gli stessi, accetta risposte semplici a domande complesse perché non vuole, o non riesce ad affrontare la complessità della realtà. Questa strategia non è altro che un esercizietto di consenso costruito sull’ignoranza delle persone che va a discapito della vera sicurezza e del progresso sociale.

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Filippo Vignoli

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