“La gente non ce la fa più”: arriva la Pandemia Fatigue

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post su Facebook della cara amica Sara Bergomi di Milano, terapeuta del Centro Studi di Terapia della Gestalt. Oltre alle competenze psicologiche, Sara è anche una persona dotata di grande profondità, un’osservatrice della realtà che analizza con umanità e si esprime in modo semplice e chiaro sui social. Proprio per questo la stimo moltissimo. 
Ebbene cosa ha scritto Sara che ha attirato la mia attenzione e stimolato queste riflessioni? Ha detto che basta guardarsi attorno per capire che “la gente non ce la fa più”. Lo ha detto così in modo che tutti, ma proprio tutti potessero capire, ma quello a cui la dottoressa Bergomi si riferiva è la cosiddetta “Pandemic fatigue”.
Con una traduzione maccheronica potremmo tradurre l’espressione con “la fatica indotta dalla pandemia” e capirebbero tutti. Per lOrganizzazione Mondiale della Sanità, che l’ha riconosciuta come patologica, la “Pandemic fatigue” si traduce in una crescente demotivazione delle persone nel mettere in atto i comportamenti protettivi raccomandati per la tutela della salute dei singoli e delle comunità.
La gente non ce la fa più, è stanca, demotivata, comincia a non reggere psicologicamente allo stato d’emergenza, alle restrizioni, ai divieti.
Chi scrive non è in queste condizioni, il suo apparato emotivo tiene per il momento, ma non può fare a meno di notare che, anche chi nel marzo scorso aveva reagito con disciplina e buon senso, ora accusa i colpi di questa anormale situazione protratta nel tempo.
Capita di incontrare sempre più spesso persone “smascherate” o “naso all’aria”, notare assembramenti, soprattutto giovanili, ma non solo (qui ci sarebbe il discorso dei controlli, ma ne parleremo un’altra volta), ascoltare “scioponi” verbali di individui, normalmente ligi, che sono pieni fino all’orlo e stanno per straripare, altri che non capiscono le norme e quindi che le applicano a loro modo.
La situazione è grave perché siamo nel mezzo “dell’inverno del nostro scontento” e ci aspettano ancora mesi prima dell’arrivo della bella stagione che potrebbe, come lo scorso anno, liberarci dall’assillo tra il virus che batte in ritirata e i primi effetti benefici delle vaccinazioni.
A Ottobre l’avevamo subito compreso che sarebbe stata dura, ben più dura che nella prima ondata, sapevamo che ci avrebbero aspettato lunghi mesi di letargo e isolamento, ma ora, giorno dopo giorno, diventa sempre più difficile resistere. 
Molte persone sono giù di morale, altre depresse, alcune arrabbiate, altre ancora rassegnate.
Eppure è fondamentale stringere i denti e cercare di affrontare i mesi che abbiamo davanti cercando di proteggere la nostra salute e quella delle persone che abbiamo vicino.
Questo è ciò che possiamo imporci razionalmente, ma nel senso comune la minaccia del virus può essere percepita in modo minore con l’abitudine alla sua esistenza , anche se i dati giornalieri evidenziano che il rischio è in realtà in aumento.  
Secondariamente un’evidente voglia di autodeterminazione e di sentirsi liberi può aumentare con il persistere delle restrizioni nel lungo termine, incentivando l’idea di non essere più padroni della propria vita .
Se si leggono i documenti dell’OMS si capisce che questa sindrome preoccupa e che costituisce un potenziale ostacolo nel combattere la pandemia, tanto vero che esistono una serie di raccomandazioni e possibili interventi rivolti agli Stati che sono coinvolti dalla diffusione del virus e dalle restrizioni inevitabili che l’accompagnano.
Non sto a raccontarvele tutte queste prescrizioni, vi dirò solo quella che mi ha colpito di più cioè l’evitare di colpevolizzare le persone per i loro comportamenti cercando di coinvolgerle rendendole parte della situazione.
Letto così è perfetto come consiglio, ma come metterlo in pratica? Con quali strumenti lo Stato può intervenire per modificare in senso positivo i comportamenti dei cittadini sorreggendoli psicologicamente ed emotivamente in questo lungo cammino?
Non è facile, soprattutto quando, oltre al morale a terra intervengono gli interessi economici che arrivano a incitare alla “disubbidienza civile” con iniziative come “Io Apro”, con cui i ristoratori vorrebbero (dico vorrebbero perché l’adesione al momento è minima) trasgredire ai divieti d’apertura imposti dai recenti DPCM.
E a proposito della difficile incisività dello Stato in questo frangente vorrei capire come sarebbe possibile intervenire sul problema “muso scoperto” di gran parte degli appartenenti al genere maschile. Perché basta andare per strada per capire che chi affronta la vita “a muso duro (e scoperto)” sono gli uomini, un po’ di tutte le età, quasi la mascherina fosse considerata una roba da femmiucce, da esseri deboli.
C’è una specie di “machismo” nel girare a viso scoperto o con il naso clamorosamente di fuori, come a dire “a me il virus non mi fa un baffo” e su questo si può incidere pochissimo, a meno di non incaricare una psicologa ad intervenire per ogni “disobbediente” spiegando che tra il naso e un altro organo molto più in basso non c’è alcuna attinenza.
A parte gli scherzi, a volte è anche necessario alleggerire un pochino soprattutto se siamo “affaticati” dalla pandemia, questo stato di cose, questo essere allo stremo, può diventare un grandissimo pericolo per ciò che deve ancora venire. 
Allentare, mollare, proprio nell’ultimo chilometrò, meglio ancora negli ultimi chilometri, può essere un disastro, un disastro che potrebbe portare tante difficoltà e altre morti.
Concludendo, visto che aiuti da fuori difficilmente ne avremo, possiamo solo fare ricorso a quelle riserve, a quelle residue forze interiori per andare avanti, studiando qualcosa di positivo con cui arricchirci la vita, giorno per giorno, nell’attesa che lo striscione del traguardo appaia finalmente alla nostra vista magari in una giornata verdeggiante e piena di luce.

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Maria Angela Damilano

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